Cassazione Penale, Sez. 6, 01 dicembre 2020, n. 34083 - Abuso di poteri di ispettore del lavoro

2020

1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Bari riformava parzialmente la sentenza del Tribunale di Bari che aveva ritenuto G.DL. responsabile per i reati allo stesso contestati ai capi 2), 3), 4) e 5) della rubrica e che lo aveva condannato alla pena ritenuta di giustizia e al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita, Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
In particolare, la Corte di appello, previa riqualificazione dei fatti contestati ai capi 2), 3) e 4) nella fattispecie di cui all’art. 315 cod. pen., dichiarava non doversi procedere per tutti i reati contestati all’imputato perché estinti per prescrizione.

Per i capi 2), 3) e 4), la Corte di appello revocava le statuizioni civili (risultando reati di corruzione già prescritti alla data della sentenza di primo grado), che invece confermava per il residuo reato di cui all'art. 319-quater cod. pen. contestato al capo 5).
All'imputato era stato originariamente contestato di aver, in qualità di ispettore del lavoro in servizio presso la Direzione provinciale del Lavoro di Bari, abusando della sua qualità e poteri, prospettando in particolare a soggetti nei cui confronti erano in corso verifiche ispettive il rischio di pesanti sanzioni amministrative e penali in conseguenza di presunte violazioni in materia di sicurezza sul lavoro da essi commesse, indotto indebitamente costoro a versargli somme di danaro.
La Corte di appello di riteneva di confermare la responsabilità dell'imputato in base all'originaria contestazione solo per la condotta descritta nel capo 5), per la quale erano emersi gli elementi costitutivi della fattispecie dell'induzione indebita: l'atteggiamento di particolare pressione intensa esercitata dall'imputato, le visite reiterate sul cantiere e la richiesta continua di documentazione avevano certamente indotto l'imprenditore M. a consegnargli le somme di danaro per ottenere un tornaconto personale, ovvero per evitare o per ridurre i danni derivanti dalle contestazioni elevate nei suoi confronti dal predetto.
A differenti conclusioni era pervenuta la Corte di appello per le restanti ipotesi di reato, per le quali non era stata accertata una significativa pressione psichica da parte dell'imputato per indurre le persone ispezionate alla dazione delle somme, che andavano qualificate quindi nella fattispecie corruttiva di cui all'art. 319 cod. pen.
2. Avverso la sentenza suddetta ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, denunciando, a mezzo di difensore, i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Violazione di legge in ordine alla mancata qualificazione del fatto contestato al capo 5) nel reato di cui all'art. 319 cod. pen.
La conferma da parte della Corte di appello della collocazione del fatto in esame nel fuoco dell'art. 319-quater cod. pen. risulta basarsi su una petizione di principio, non avendo la sentenza impugnata affrontato la vera essenza del suddetto reato, ovvero la prevaricazione induttiva.
Occorreva dimostrare che la condotta abusiva, lungi dall'identificarsi con la mera posizione sovraordinata o di supremazia del pubblico agente, si fosse positivamente estrinsecata in un atteggiamento,. percepibile al destinatario, idoneo a condizionarlo ad aderire alla richiesta illecita in vista di un proprio tornaconto personale.
Il ragionamento della Corte di appello si presenta al riguardo fallace in quanto ha individuato la manifestazione della pressione condizionante in comportamenti "asintomatici" (le modalità particolarmente zelanti delle visite ispettive), tanto da caratterizzare anche le altre fattispecie contestate, ma qualificate nel reato di cui all'art. 319 cod. pen. Difettava nella specie la estrinsecazione di una richiesta­ pretesa che convincesse il privato alla dazione illecita.
A ciò va aggiunto che nella ricostruzione della vicenda la Corte di appello ha pretermesso il rilievo sollevato dalla difesa in ordine alla ritenuta anomala reiterazione delle visite (invece consentita dalla normativa di settore, alla luce del fatto che erano state riscontrate altre violazioni).
La Corte di appello ha inoltre obliterato quanto accertato dalla polizia giudiziaria in ordine alle violazioni effettivamente commesse dal destinatario (ritenute invece rilevanti per le altre vicende) e quindi alle conseguenze che erano state paventate dal ricorrente (non meramente ipotetiche). Quindi non poteva dirsi pretestuosa la richiesta di documentazione e la stessa preordinata ad indurre l'imprenditore alla dazione indebita.
Censurabile è inoltre il significato attribuito dalla Corte di appello alla frase pronunciata dal ricorrente "non fumo" - allorché aveva rifiutato la dazione di 200 euro - non rispondente a massime di comune esperienza: la circostanza che il ricorrente abbia accettato in seguito la più alta somma di 500 euro non significa che tale dazione sia sta "indotta" da tale frase e non sia invece il frutto di una iniziativa maturata autonomamente dall'imprenditore. Si tratta quindi di inferenza meramente congetturale e arbitraria.
In definitiva la Corte di appello si è affidata per il suo ragionamento giustificativo su dati privi di valenza dimostrativa.
Ha poi omesso di valutare che l'iniziativa di provvedere alla dazione in tutte le vicende oggetto del presente procedimento vedevano sempre la iniziativa del privato, anche con riferimento al quantum, senza alcuna richiesta neppure implicita da parte del ricorrente.
Ancorché tale circostanza non escluda la configurazione dell'induzione indebita, essa assume un significato che rafforza il convincimento in termini di alta probabilità che si sia in presenza di un fatto di corruzione (ragionando a contrario rispetto a quanto affermati dalle SS.UU. Malderc1 quanto agli indici sintomatici della induzione indebita).
Censurabile è la sentenza impugnata anche con riferimento al vantaggio perseguito dal privato con la dazione illecita, che si basa su un ragionamento ipotetico, che si riverbera sulla prova della induzione indebita.

Va considerato che la dazione avvenne dopo la redazione del verbale con il quale erano state elevate le contestazioni e dal quale sarebbero seguite le sanzioni.

3. Con istanza fatta pervenire tempestivamente dal difensore del ricorrente è stata chiesta la trattazione orale del ricorso, in base a quanto prevede l'art. 23, comma 8, del d.l. n. 137 del 2020.



Diritto




1. Il ricorso è inammissibile.


2. Il ricorrente ha fatto pervenire il 13 novembre 2020 in Cancelleria dichiarazione - da lui sottoscritta e autenticata dal difensore di fiducia - di rinuncia al ricorso.

3. Ne consegue pertanto l'inammissibilità del ricorso.
Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione per rinuncia all'impugnazione, consegue altresì la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende, in quanto l'art. 616 cod. proc. pen., nello stabilire l'applicazione di detta sanzione, non distingue tra le diverse cause che danno luogo alla pronuncia di inammissibilità.
In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", deve, quindi, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro, in favore della cassa delle ammende.



P.Q.M.



Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000 in favore della cassa delle ammende.


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