Cassazione Penale, Sez. 4, 31 marzo 2021, n. 12149 - Movimentazione di un fascio di colonne metalliche con un carrello elevatore e amputazione dell'avampiede del lavoratore. Responsabilità del datore di lavoro e dell'ente

2021

La Corte d'appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale cittadino, con la quale R.G. era stato condannato per il reato di cui all'art. 590 cod. pen. ai danni del lavoratore, aggravato dalla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, e la società R. F.lli s.r.l. dichiarata responsabile dell'illecito amministrativo contestato, ha riconosciuto all'imputato le circostanze attenuanti generiche, in termini di equivalenza rispetto all'aggravante contestata, ridotto la pena detentiva, sostituendola con quella pecuniaria, ha revocato il beneficio della sospensione e applicato quello della non menzione, confermando nel resto la sentenza.
Si è contestato al R., nella qualità di direttore generale dell'ente amministrativamente responsabile, nonché addetto alla produzione e datore di lavoro della persona offesa, di avere cagionato a quest'ultima le lesioni gravi descritte in imputazione (esitate nell'amputazione dell'avampiede destro), per negligenza, imprudenza e imperizia e per inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro [in particolare, dell'art. 71, c. 1, 3, 4 e 7 del T.U. n. 81/2008, in relazione ai punti 3.1.1. e 3.1.4. all. VI del T.U. e dell'art. 73, c. 1, lett. a) e b) stesso T.U., in relazione ai punti 3.1.5, 3.2.4. e 3.2.5 all. VI citato], per avere disposto o comunque consentito l'utilizzo di un carrello elevatore per operazioni per le quali non era indicato (sollevamento di un fascio di colonne metalliche lunghe quasi quattro metri e pesanti ciascuna Kg. 678), senza fornire attrezzature o accessori necessari per un uso in sicurezza, essendo stato il mezzo utilizzato a guisa di gru/paranco, e non per la movimentazione di carichi pallettizzati, e senza utilizzo di ganci in grado di trattenere il carico; e per non avere impartito ai lavoratori idonee istruzioni per l'uso del carrello di che trattasi in relazione alle modalità d'imbraco e ai sistemi di ancoraggio, onde assicurare la stabilità del carico e scongiurare la prossimità di lavoratori a terra, anche in situazioni anomale ma prevedibili (quale l'utilizzo del carrello per sollevare lunghe colonne metalliche).
Nella specie, durante la movimentazione di un fascio di quattro colonne metalliche con le caratteristiche sopra descritte, eseguita imbracando il carico con una fascia di tessuto, le cui estremità a occhiello venivano infilate in una delle zanche sollevate del carrello, il V.M. era intento a tenere in equilibrio e orientare manualmente il carico da terra, mentre il collega T. si trovava alla guida del carrello. All'improvviso, una estremità della fascia di imbraco era fuoriuscita dalla zanca, facendo cadere a terra il carico che investiva il V.M. al piede destro, determinando le descritte conseguenze lesive.

2. Avverso la sentenza d'appello hanno proposto ricorsi l'imputato e l'ente, ciascuno con proprio difensore e separato atto.

2.1. Ricorso dell'imputato R.. Questa difesa ha formulato tre motivi.

2.1. Con il primo, ha dedotto vizio della motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra la condotta addebitata e l'evento. La difesa, in particolare, contestata la condotta valutazione delle prove da parte dei giudici del merito, rilevando il travisamento delle stesse, con riferimento a più punti: si contestano le conclusioni rassegnate dai giudici di merito quanto alla ritenuta prova che il comportamento del lavoratore rientrasse nell'ambito delle mansioni affidategli, trattandosi di soggetto che non operava allo spostamento delle colonne da un reparto all'altro, bensì quale rettificatore; si contesta che, nel reparto di lavorazione, non vi fossero altre colonne da rettificare, con conseguente necessità di spostarle da un altro reparto, essendo invece emerso che tale spostamento non era necessario per la presenza di altri manufatti; si rileva che le prove testimoniali avrebbero escluso che il R. aveva istruito il T. sull'utilizzo del carrello per il trasporto delle colonne metalliche, ciò essendo avvenuto solo il sabato antecedente all'infortunio, per motivi contigenti, legati alla necessità del collaudo del carroponte, normalmente utilizzato per quei trasporti; si rileva che le prove avrebbero dimostrato la presenza di un foro o di un perno di trattenuta della cinghia sul carrello elevatore e si contesta il ragionamento probatorio della Corte territoriale fondato sulla visione di fotografie che si ritengono inadeguate allo scopo. In conclusione, la difesa assume l'avvenuta interruzione del nesso causale tra la condotta addebitata e l'evento per avere il lavoratore tenuto un comportamento del tutto esorbitante rispetto alle procedure operative alle quali era ddetto.

2.2. Con un secondo motivo, si deduce vizio motivazionale anche in relazione ai profili di colpa riguardanti le condotte contestate (messa a disposizione di un carrello per operazioni per le quali non era idoneo e omesse istruzioni per un uso sicuro di esso).
Sul punto, il deducente osserva che la Corte territoriale non avrebbe considerato la ragione della prima movimentazione (quella inversa effettuata - il sabato precedente l'infortunio dal R., sempre con l'ausilio del T. - per motivi connessi al collaudo del carroponte) e la circostanza che nelle precedenti occasioni il carrello era stato utilizzato per spostare singole colonne, imbracate a strozzo.

2.3. Infine, con un terzo motivo, la difesa ha dedotto violazione di legge e illogicità e carenza della motivazione con riferimento al giudizio di bilanciamento tra gli elementi circostanziali.

3. La difesa dell'ente ha formulato quattro motivi.
I primi due sono sovrapponibili a quelli formulati nell'interesse dell'imputato e a essi si rinvia per comodità espositiva.
Quanti ai restanti motivi, con il terzo, la difesa dell'ente ha dedotto violazione dell'art. 5 del d. lgs. n. 231/2001 e vizio di illogicità della motivazione, rilevando che, nel passaggio motivazionale relativo al trattamento sanzionatorio dell'imputato, la stessa Corte territoriale ha riconosciuto che la condotta s'inseriva in un contesto di evidente eccezionalità, premessa dalla quale era logico attendersi la conclusione che, nella specie, difetterebbero sia l'interesse che il vantaggio per l'ente. Inoltre, secondo il deducente, la Corte territoriale si sarebbe palesemente discostata dalle. nozioni giuridiche di interesse e vantaggio, rinvenendo un asserito interesse nel risparmio sulla complessiva operazione di installazione e collaudo del carroponte.
Con il quarto motivo, infine, si è dedotta violazione degli artt. 11 e 12 del d. lgs. n. 231 del 2001, con riferimento al valore della quota e della misura della riduzione applicata ai sensi dell'art. 12 c. 2, lett. a), d. lgs. citato, contestando la valutazione relativa al dato dimensionale dell'azienda e all'entità dei danni patiti dal lavoratore.

4. Il Procuratore generale, in persona del sostituto Luca TAMPIERI, ha rassegnato proprie conclusioni scritte a norma dell'art. 23. C. 8, decreto legge n. 137 del 2020, con le quali ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.

5. Sia la difesa dell'imputato, che quella dell'ente hanno rassegnato proprie conclusioni scritte, con le quali si richiamano integralmente tutti i motivi dedotti e le richieste avanzate con il ricorso per cassazione.



Diritto




1. I ricorsi sono inammissibili.


POSIZIONE R.
2. La Corte bresciana, con analitica e puntuale descrizione della dinamica, suffragata dalle risultanze processuali pure indicate in sentenza, mediante un richiamo di quella appellata, ha precisato, con specifico riferimento al comportamento del lavoratore, qui d'interesse alla luce delle doglianze veicolate con i ricorsi, che l'operazione posta in essere dal V.M., con l'ausilio del T., il giorno del sinistro, non poteva considerarsi eccentrica rispetto alle proprie mansioni di rettificatore. Egli non era addetto allo spostamento delle colonne da un capannone a un altro, anche per la ragione che detti manufatti di regola si trovavano esattamente là dove dovevano essere lavorati. Tuttavia, con riferimento ai motivi che, nell'occorso, spinsero i due lavoratori a movimentare le colonne, la Corte, richiamate le prove raccolte, ha precisato che il V.M. aveva ricevuto il venerdì precedente ordine dal capofficina, figlio dell'imputato, di procedere il lunedì successivo alla lavorazione delle barre di diametro 150; al momento in cui l'ordine fu dato, le colonne erano ancora sul luogo in cui avrebbero dovuto essere lavorate. Infatti, solo il sabato successivo l'imputato, con l'ausilio del T., a causa del collaudo del carroponte avvenuto proprio quel giorno, aveva spostato, con le stesse modalità, le colonne. Fu questa la ragione per la quale i due decisero il giorno dell'infortunio di procedere al trasporto delle colonne nel luogo della lavorazione utilizzando lo stesso mezzo (il carrello elevatore), non adatto allo scopo e con le errate modalità descritte in imputazione.
La Corte non ha recepito la spiegazione alternativa secondo cui altre colonne sarebbero state disponibili per la lavorazione senza alcuna necessità di effettuare il trasporto incriminato: l'assunto era stato formulato sulla scorta di una testimonianza (quella del figlio dell'imputato) non disinteressata, contraddetta da alcuni passaggi dello stesso riferito del teste, relativamente al numero complessivo delle colonne presenti in azienda, non suffragata dalla testimonianza del T. (che, per il vero, si era limitato a esprimere l'opinione per cui in reparto rettifiche ci sarebbero state altre colonne, finendo con l'ammettere che, se era andato con il V.M. a prendere quelle colonne, la ragione era che quelle colonne dovevano essere lavorate); ma soprattutto, contraddetta dalle dichiarazioni della persona offesa, maggiormente credibili siccome agganciate alla logica, come lo stesso teste T. aveva finito per riconoscere.
Pertanto, le colonne erano state spostate per esigenze dell'azienda (collaudo di un carroponte) e non erano state riportate nel luogo in cui doveva svolgersi la lavorazione espressamente assegnata al V.M..
Quanto alle modalità del trasporto, poi, la Corte bresciana ha disatteso l'assunto difensivo secondo cui non poteva parlarsi, nella specie, di una prassi aziendale, essendo emerso che l'utilizzo del carrello era legato a un evento eccezionale (il più volte citato collaudo), il precedente valorizzato dal Tribunale essendo accaduto per lo stesso motivo ed essendo stato eseguito dall'imputato personalmente, seppur con l'ausilio del T.: in realtà, dall'istruttoria era emerso che il ricorso a quella soluzione non era stato così eccezionale, i due operai avendo dimostrato di conoscere quella soluzione che non trovarono per nulla anormale, essendo stata praticata altre volte, sia pure per spostare singoli pezzi. La Corte ha concluso che, se pure non poteva parlarsi di vera e propria prassi aziendale, tuttavia, i due operai - di fronte a un problema - lo affrontarono nell'unico modo possibile e cioè seguendo modalità già osservate nella pratica aziendale, sia pure in casi eccezionali, proprio come quelle che si trovarono a gestire quel giorno. Lo stesso T. aveva utilizzato, sotto le direttive del R., lo stesso metodo lavorativo appena due giorni prima dell'accaduto per movimentare tre fasci di colonne. Proprio tale comportamento dell'imputato è stato ritenuto decisivo nel determinare la condotta successiva dei due lavoratori.

Infine, nell'affrontare il punto concernente le modalità con cui fu effettuato l'imbraco delle colonne (possibilità di utilizzo di una vite a bloccaggio), la Corte ha rilevato che la presenza di tale presidio non era stata riferita dal T., il quale aveva dichiarato di non ricordarsene. Sulla scorta di altre testimonianze (figlio dell'imputato e collaudatore) poteva forse affermarsi che il muletto era dotato di un foro per collocare un perno amovibile, ma quel giudice ha valorizzato la prova documentale (fotografica) per rilevare l'assenza, nella specie, di perni o fori, ma anche quanto riferito dall'organo accertatore, che, visionato in sede di immediato sopralluogo il carrello coinvolto nell'incidente, aveva escluso la presenza di dispositivi di tal fatta, dei quali neppure vi era cenno nel libretto delle istruzioni, tenuto conto della naturale destinazione della macchina.
Alla stregua di tali evidenze, pertanto, quel giudice ha escluso che il comportamento della vittima avesse interrotto il nesso causale, rilevando vieppiù che il R. non si era neppure attivato, dopo averne personalmente curato lo spostamento, per riportare le colonne nel luogo in cui dovevano trovarsi per essere lavorate dal V.M. e neppure aveva impedito al T. di effettuare l'operazione inversa rispetto a quella effettuata sotto le sue direttive.
In conclusione, quanto ai singoli addebiti di colpa, la Corte territoriale ha ritenuto l'impiego del carrello una grave violazione delle norme antinfortunistiche, così come pericolosa e contraria a ogni norma di sicurezza la presenza di un lavoratore a contatto fisico con un carico così precariamente movimentato. Il comportamento del R. aveva mostrato agli occhi del dipendente presente che l'applicazione di quelle regole di sicurezza non era da considerarsi tassativa e lo stesso V.M. non trovò strano che T. utilizzasse il muletto con quelle modalità perché lo aveva visto fare altre volte, sia pure in occasioni eccezionali e per spostare barre singole.
In punto trattamento sanzionatorio, la Corte - riconosciute le generiche - ha giustificato il giudizio di bilanciamento tra gli elementi circostanziali in termini di sola equivalenza valorizzando la gravità della colpa, desunta dalla stessa abnormità delle modalità di utilizzo del carrello, e la gravità delle lesioni patite dal V.M..

POSIZIONE ENTE
3. Quanto alla società, il giudice d'appello ha ritenuto sussistenti i presupposti per la dichiarazione di responsabilità amministrativa, richiamando le considerazioni svolte quanto alla responsabilità del R. in ordine al reato presupposto e specificamente argomentando, quanto al collegamento tra la condotta del soggetto apicale e gli assetti organizzativi dell'azienda, in ordine all'elemento oggettivo d'imputazione.
In particolare, riconosciuta l'erroneità della valutazione condotta dal Tribunale, alla stregua dei principi giurisprudenziali consolidati in materia, ha ciononostante ritenuto la sussistenza della responsabilità dell'ente, rilevando che, nella specie, l'esame degli atti consentiva di ravvisare precisi criteri di collegamento. Il legale rappresentante della società si era trovato, nell'occorso, nella necessità di fronteggiare una specifica esigenza aziendale: si trattava cioè di eseguire il collaudo del carroponte e per farlo era necessario approntare dei pesi che erano stati individuati in quattro fasci di colonne d'acciaio, non disponibili però nel capannone ove era installato il nuovo carroponte; non potendo utilizzare altri carroponti, per la traslazione delle colonne avrebbe dovuto fare ricorso a ditte esterne e affrontare i costi di noleggio e i tempi di attesa, da valutarsi anche in termini di perdita di tempo. L'utilizzo del carrello, al contrario, aveva consentito di agire subito e "a costo zero", ad onta del fatto che quella scelta fosse del tutto inadeguata rispetto alla tutela della integrità dei lavoratori.
Pertanto, quando il R. si determinò a usare il carrello in modo improprio e pericoloso per raggiungere lo scopo voluto, ciò fece nell'interesse dell'ente, onde evitare spese e accelerare i tempi del collaudo e ciò a prescindere dal fatto che la società non avesse improntato la sua politica al risparmio allorchè si era proceduto alla dotazione di un nuovo carroponte: è stato ritenuto decisivo, infatti, che l'utilizzo del carrello aveva scongiurato costi aggiuntivi.
La quantificazione della sanzione è stata ritenuta congrua, sia perché lo scostamento dal minimo è stato contenuto, ma anche avuto riguardo alle dimensioni dell'azienda che, pur a carattere familiare, non poteva considerarsi marginale per importanza economica. Parimenti adeguata è stata considerata la scelta della riduzione operata dal primo giudice sino al terzo invece che fino alla metà, avuto riguardo alla gravità del danno fisico patito e al consistente tempo trascorso tra il fatto e il risarcimento da parte della società assicuratrice.

LA DECISIONE DI QUESTA CORTE
4. I primi due motivi formulati nell'interesse dell'imputato e dell'ente sono manifestamente infondati e la loro trattazione unitaria è ampiamente giustificata dal tenore delle relative doglianze.

4.1. In linea generale, va ricordato che, in caso di doppia sentenza conforme, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (cfr. sez. 3 n. 44418 del 16/7/2013, Argentieri, Rv, 257595; sez. 1 n. 1309 del 22/11/1993, 1994, Rv. 197250), a maggior ragione allorché i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata (cfr. sez. 3 n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615).

4.2. Sotto altro profilo, va anche ribadita l'estraneità, al vaglio di legittimità, degli aspetti del giudizio che si sostanziano nella valutazione del significato degli elementi probatori che attengono interamente al merito e non possono essere apprezzati dalla Corte di cassazione se non nei limiti in cui risulti viziato il percorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa, con la conseguente inammissibilità di censure che siano sostanzialmente intese a sollecitare una rivalutazione del risultato probatorio. Tale principio costituisce il diretto precipitato di quello, altrettanto consolidato, per il quale sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. sez. 6 n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482), stante la preclusione per questo giudice di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (cfr. sez. 6 n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099).

4.3. Tale tema introduce direttamente quello dell'esatta individuazione del vizio motivazionale deducibile in sede di legittimità. È vero che - a seguito della modifica apportata all'art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen. dall'art. 8, comma primo, della legge n. 46 del 2006 - il legislatore ha esteso l'ambito della deducibilità di tale vizio anche ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame, così introducendo il travisamento della prova quale ulteriore criterio di valutazione della contraddittorietà estrinseca della motivazione il cui esame nel giudizio di legittimità deve riguardare uno o più specifici atti del giudizio, non il fatto nella sua interezza (cfr. sez. 3 n. 38341 del 31/1/2018, Ndoja, Rv. 273911); ma è altrettanto pacifico che, anche a seguito di tale modifica, resta pur sempre non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (cfr. sez. 3 n. 18521 del 11/1/2018, Ferri, RV. 273217; sez. 6 n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099, cit.).
In ogni caso, va ribadito che un ricorso per cassazione che deduca il travisamento (e non soltanto l'erronea interpretazione) di una prova decisiva, ovvero l'omessa valutazione di circostanze decisive risultanti da atti specificamente indicati, impone di verificare l'eventuale esistenza di una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall'assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto, ovvero di verificare l'esistenza della decisiva difformità, fermo restando il divieto di operare una diversa ricostruzione del fatto, quando si tratti di elementi privi di significato indiscutibilmente univoco (cfr. sez. 4 n. 14732 del 1/3/2011, Molinario, Rv. 250133).

Va, infine, ribadito che la illogicità del percorso motivazionale articolato dai giudici di merito può tradursi in vizio deducibile in sede di legittimità solo e in quanto sia manifesta, come espressamente prevede l'art. 606, c. 1, lett. e) cod. proc. pen.

4.4. Nella specie, la difesa ha contestato la valutazione delle evidenze operata dai giudici del doppio grado, opponendo vizi motivazionali (tra cui la illogicità, ma non manifesta), anche in termini di travisamento, che tuttavia non hanno il connotato sopra descritto, traducendosi piuttosto in difformi letture del compendio probatorio, precluse in questa sede.
Peraltro, va pure evidenziato che le conclusioni dei giudici territoriali sono del tutto coerenti con i principi già affermati da questa Corte di legittimità, con specifico riferimento al tema centrale agitato a difesa, quello cioè dell'effetto interruttivo del comportamento del lavoratore sul decorso causale.

4.5. In materia di prevenzione antinfortunistica, infatti, si è efffettivamente passati da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, imponendosi contro la loro volontà), ad un modello "collaborativo" in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori, in tal senso valorizzando il testo normativo di riferimento (cfr. art. 20 d.lgs. n. 81/2008), il quale impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e agire con diligenza, prudenza e perizia (cfr., sul punto, sez. 4 n. 8883 del 10/2/2016, Santini e altro, Rv. 266073).
Tuttavia, pur dandosi atto che - da tempo - si è individuato il principio di auto responsabilità del lavoratore e che è stato abbandonato il criterio esterno delle mansioni, sostituito con il parametro della prevedibilità, intesa come dominabilità umana del fattore causale (cfr., in motivazione, sez. 4 n. 41486 del 2015, Viotto), passandosi, a seguito dell'introduzione del d.lgs 626/94 e, poi, del T.U. 81/2008, dal principio "dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore" al concetto di "area di rischio" (sez. 4, n. 21587 del 23.3.2007, Pelosi, Rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva, resta in ogni caso fermo il principio secondo cui non può esservi alcun esonero di responsabilità all'interno dell'area di rischio, nella quale si colloca l'obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore (cfr. sez. 4 n. 21587 del 2007, Pelosi, cit.).
All'interno dell'area di rischio considerata, quindi, deve ribadirsi il principio per il quale la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, non tanto ove sia imprevedibile, quanto, piuttosto, ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (cfr. sez. 4 n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa e altri, Rv. 269603; cfr. sez. 4 n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, PMT c/ Musso Paolo, rv. 275017); oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (cfr. sez. 4 n. 7188 del 10/01/2018, Bozzi, Rv. 272222).

4.6. Data tale premessa in diritto, non si rinviene - nella risposta approntata dalla Corte d'appello alle doglianze formulate con il gravame di merito - alcun vizio motivazionale che infici il complessivo ragionamento probatorio svolto nella sentenza censurata, le cui argomentazioni, al contrario, tengono in debito conto i principi testé richiamati.
Nella specie, il lavoratore ha agito nel contesto delle lavorazioni espressamente assegnategli, la condotta riguardando un momento propedeutico reso necessario da iniziative prese da altri; la soluzione al problema contingente è stata rinvenuta dai due lavoratori impegnati nello spostamento delle colonne in una pratica già osservata in azienda e, nel caso del T., anche concretamente applicata, sotto le direttive dello stesso datore di lavoro, appena due giorni prima; era stato lo stesso R., in tal modo, ad accreditare la convinzione che quell'anomala modalità di traslazione delle colonne potesse essere praticata anche nella specifica situazione.

5. Anche il terzo motivo dedotto nell'interesse dell'imputato è manifestamente infondato.
La Corte di merito ha fatto applicazione dei parametri legali di cui all'art. 133 cod. pen. e la motivazione che sostiene il giudizio di bilanciamento è del tutto congrua, non contraddittoria e non manifestamente illogica. In ogni caso e risolutivamente, essa è del tutto coerente con i principi già affermati da questa Corte di legittimità, secondo cui le circostanze attenuanti generiche costituiscono uno strumento avente la funzione di mitigare la rigidità dell'originario sistema di calcolo della pena nell'ipotesi di concorso di circostanze di specie diversa e tale funzione, ridotta a seguito della modifica del giudizio di comparazione delle circostanze concorrenti, ha modo di esplicarsi efficacemente solo per rimuovere il limite posto al giudice con la fissazione del minimo edittale, allorché questi intenda determinare la pena al di sotto di tale limite, con la conseguenza che, ove questa situazione non ricorra, perché il giudice valuta la pena da applicare al di sopra del limite, il diniego della prevalenza delle generiche diviene solo elemento di calcolo e non costituisce mezzo di determinazione della sanzione e non può, quindi, dar luogo né a violazione di legge, né al corrispondente difetto di motivazione (cfr. sez. 3 n. 44883 del 18/7/2014, Cavicchio, Rv. 260627).

6. Il terzo motivo dedotto nell'interesse dell'ente è manifestamente infondato.

6.1. In linea generale, deve ribadirsi, con riferimento alla responsabilità da reato degli enti, che si tratta di un modello di responsabilità che, coniugando i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo, ha finito con il configurare un tertium genus di responsabilità, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza (cfr. Sezioni Unite n. 38343/2014, Espenhahn e altri, cit., Rv. 261112). Quanto, poi, ai criteri d'imputazione oggettiva della responsabilità dell'ente (l'interesse o il vantaggio di cui all'art. 5 del d. lgs. 231 del 2001), essi sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il secondo ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito. Peraltro, proprio nel caso di responsabilità degli enti ritenuta in relazione a reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, il S.C. ha precisato che la colpa di organizzazione deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli (cfr. Sezioni Unite n. 38343 del 24/04/22014, Espenhahn e altri, Rv. 261113). Per non svuotare di contenuto la previsione normativa che ha inserito nel novero di quelli che fondano una responsabilità dell'ente anche i reati colposi, posti in essere in violazione della normativa antinfortunistica (art. 25 septies del d.lgs. 231 del 2001) è stato peraltro chiarito, in via interpretativa, che i criteri di imputazione oggettiva di che trattasi vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all'evento, in conformità alla diversa conformazione dell'illecito, essendo possibile che l'agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell'ente. A maggior ragione vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l'ente (cfr., in motivazione, Sez. U. n. 38343 del 2014, cit.). Si è così salvaguardato il principio di colpevolezza, con la previsione della sanzione del soggetto meta-individuale che si è giovato della violazione.

6.2. La casistica ha offerto, poi, alla giurisprudenza di legittimità l'occasione per calibrare, di volta in volta, il significato dei due concetti alternativamente espressivi del criterio d'imputazione oggettiva di cui si discute: si è così affermato, per esempio, che esso può essere ravvisato nel risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dei procedimenti e dei presidi di sicurezza; nell'incremento economico conseguente all'incremento della produttività non ostacolata dal rispetto della normativa prevenzionale (sez. 4 n. 31210 del 2016, Merlino e altro; n. 43656 del 2019, Compagnia Progetti e Costruzioni); nel risparmio sui costi di consulenza, sugli interventi strumentali, sulle attività di formazione e informazione del personale (cfr., in motivazione, sez. 4 n. 18073 del 2015, Bartoloni ed altri); o, ancora, nella velocizzazione degli interventi di manutenzione e di risparmio sul materiale.
Esso, quindi, va inteso non solo come risparmio di spesa conseguente alla mancata predisposizione del presidio di sicurezza, ma anche come incremento economico dovuto all'aumento della produttività non rallentata dal rispetto delle norma cautelare (sez. 4 n. 31003 del 23/6/2015, Cioffi e altri e n. 53285 del 10/10/2017, Pietrelli e altri, in motivazione). In altri termini: vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno (persona fisica) all'interesse dell'altro.

6.3. Nella specie, ritiene questa Corte che il ragionamento probatorio dei giudici d'appello sia del tutto coerente con la lettera della legge, innanzitutto, ma anche con una interpretazione di essa allineata ai principi che la ricorrente assume esser stati violati, tuttavia solo genericamente richiamandoli.
Peraltro, il contenuto del ricorso offre l'occasione per ribadire quanto di recente affermato da questa stessa sezione in ordine all'esatta individuazione dei parametri di imputazione oggettiva, avuto riguardo alla rilevanza o meno del connotato di sistematicità delle violazioni, in tema di verifica del parametro oggettivo d'imputazione, sì da scongiurare una lettura della norma di cui all'art. 25-septies cit. secondo cui l'affermazione della responsabilità dell'ente consegue indefettibilmente, una volta dimostrati il reato presupposto e il rapporto di immedesimazione organica dell'agente.
Il criterio di imputazione oggettiva dell'interesse può sussistere, infatti, anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta a un'iniziativa estemporanea, senza la necessità di provare la natura sistematica delle violazioni antinfortunistiche, allorché altre evidenze fattuali dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l'interesse dell'ente (cfr. sez. 4, n. 29584 del 22/9/2020, F.lli Cambria S.p.A, Rv. 279660, in cui, in motivazione, si è affermato che l'art. 25-septies cit. non richiede la natura sistematica delle violazioni alla normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell'ente derivante dai reati colposi ivi contemplati, né tale connotato è imposto dalla necessità di rinvenire un collegamento tra l'azione umana e la responsabilità dell'ente che renda questa compatibile con il principio di colpevolezza; sotto altro profilo precisandosi che è eccentrico rispetto allo spirito della legge ritenere irrilevanti tutte quelle condotte, pur sorrette dalla intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari, considerato peraltro l'innegabile quoziente di genericità del concetto di sistematicità).
L'intero discorso, in realtà, attiene al piano prettamente probatorio, cui tale connotato appartiene, quale possibile indizio della esistenza dell'elemento finalistico della condotta dell'agente, idoneo al tempo stesso a scongiurare il rischio di far coincidere un modo di essere dell'impresa con l'atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica.

Ne deriva, quale logico corollario, che l'interesse può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata, allorché altre evidenze fattuali dimostrino tale collegamento finalistico, così neutralizzando il valore probatorio astrattamente riconoscibile al connotato della sistematicità (cfr. in motivazione sez. 4 n. 29584/2020 cit.).

6.4. La Corte d'appello di Brescia, nell'esaminare il criterio di imputazione oggettivo ai sensi dell'art. 5 d.lgs 231 del 2001, ha in maniera del tutto pertinente messo in evidenza, sulla scorta degli elementi restituiti dall'istruttoria, l'interesse dell'ente consistito nella velocizzazione dei tempi del collaudo del carroponte e il vantaggio rappresentato dal risparmio sui costi di noleggio dell'attrezzatura, in quel momento non disponibile a causa della particolare situazione venutasi a creare proprio in conseguenza del programmato collaudo. Il che risponde adeguatamente alle censure con le quali parte ricorrente ha opposto il carattere eccezionale e la non sistematicità della violazione.

6.5. Il quarto motivo formulato nell'interesse dell'ente è manifestamente infondato. La difesa non si è effettivamente confrontata con le ragioni della decisione debitamente esposte nella sentenza censurata, ma si è limitata a contestare il metro di giudizio applicato al caso di specie, sulla scorta di considerazioni che implicano una valutazione di fatto, come tale non deducibile in questa sede.

7. Alla inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità (cfr. C. Cost. n. 186/2000).


P.Q.M.


Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Deciso il 24 marzo 2021


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