Cassazione Penale, Sez. 4, 14 febbraio 2022, n. 5118 - Caduta dall'alto. Mancanza di adeguate informazioni in ordine al lavoro da svolgersi ed ai connessi rischi e mancato allestimento di adeguate misure di protezione

2022

Fatto




1. Con sentenza del 4 marzo 2020 la Corte di appello di Milano ha confermato la pronuncia del locale Tribunale del 15 gennaio 2018 con cui S.V. e DL.I.A. erano stati condannati alla pena di mesi 3 di reclusione, in ordine al reato di cui agli artt. 113, 590, commi 1, 2 e 3, cod. pen. in relazione agli artt. 26, comma 1 lett. b), 96, comma 1 lett. g), e 122 del d.lgs. n. 81 del 2008 per avere, il S.V. in qualità di committente dei lavori e il DL.I.A. quale datore di lavoro della ditta Demi s.r.l., in cooperazione colposa tra loro, cagionato a V.A. lesioni gravi consistite in frattura vertebra toracica D12 e frattura del polso destro, da cui derivava una malattia per un periodo superiore a 40 giorni, con colpa consistita in violazione alle norme sulla sicurezza del lavoro, ed in particolare - con riguardo alla sola posizione di interesse in questa sede - il DL.I.A. per avere omesso di allestire delle opere provvisionali idonee a proteggere il lavoratore dalla caduta dall'alto e la stesura di un Piano Operativo di Sicurezza (POS). L'infortunato, in assenza di tali informazioni e privo di qualsiasi strumento di protezione individuale, dopo essere sbarcato in quota, appoggiava un piede su una copertura in plexiglass sfondandola, precipitando al suolo da un'altezza di circa 5 metri, procurandosi le descritte lesioni.

2. La Corte territoriale, nel conferire risposta alle doglianze eccepite dall'appellante, ha compiutamente rappresentato le risultanze emerse dal giudizio di primo grado, in particolar modo ribadendo che l'incidente si era verificato perché V.A., dipendente della Demi S.r.l., si era recato unitamente ad un collega, su espressa indicazione del suo datore di lavoro DL.I.A., presso i locali della Essevi Service S.r.l. al fine di effettuare il collegamento elettrico di una caldaia appena installata. Giunto sul posto, il V.A. era stato genericamente indirizzato da S.V. - legale rappresentante della Essevi Service S.r.l. - al piano superiore, ove, in un imprecisato punto esterno, si trovava ubicata la caldaia. Incontrati degli idraulici che avevano dato ulteriori indicazioni sul come raggiungere tale caldaia, il V.A. era uscito da una finestra del capannone e, trovatosi di fronte una falda di copertura costituita da un "ondulato" in plexiglass, erroneamente ritenuta in metallo per il suo colore grigio, era salito su tale copertura che, non reggendo il suo peso, si frantumava, determinando la sua caduta da un'altezza di circa 5 metri.
Era stata, in particolare, riconosciuta la penale responsabilità del DL.I.A. per non aver fornito alla vittima adeguate informazioni in ordine al lavoro da svolgersi ed ai connessi rischi, nonché in relazione al mancato allestimento di adeguate misure di protezione. Prescindendo dal fatto che si fosse trattato, o meno, dello svolgimento di una semplice attività di sopralluogo, vi era stata comunque, infatti, una causalmente determinante omissione informativa, considerato che la persona offesa, ove adeguatamente notiziata in ordine allo stato dei luoghi, avrebbe certamente potuto munirsi dei mezzi di protezione individuale di cui era dotata, ovvero allestire un trabattello o utilizzare una scala a pioli per accedere in sicurezza alla caldaia.
Per il giudice di merito, invece, non era possibile ravvisare alcuna responsabilità del DL.I.A. in ordine al contestato profilo della mancata redazione del Piano Operativo di Sicurezza (POS), non costituendo i luoghi del sinistro un cantiere in senso stretto, ai sensi di quanto previsto dall'art. 89 d.lgs. n. 81 del 2008.

3. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il solo difensore di DL.I.A., deducendo quattro motivi di doglianza.
Con il primo sono stati eccepiti contraddittorietà ed illogicità della motivazione per travisamento delle prove nella trattazione della premessa dell'appello proposto dall'imputato.
A dire del ricorrente, infatti, la Corte territoriale avrebbe travisato il significato delle prove testimoniali acquisite, affermando che il V.A. non si era recato sui luoghi per un sopralluogo, bensì per svolgere direttamente il lavoro di collegamento elettrico della caldaia. In tal maniera, pertanto, sarebbe stata effettuata una valutazione difforme da quella resa dal Tribunale in prime cure, per il quale, invece, interpretando in modo corretto le emergenze processuali, si era unicamente trattato di una preliminare visualizzazione della caldaia, finalizzata ad individuare la sua collocazione, i lavori da svolgere e quali apprestamenti di sicurezza adottare per l'esecuzione dell'intervento.
Tale travisamento, ponendosi come valutazione preliminare alla successiva affermazione di responsabilità del DL.I.A., disarticolerebbe la coerenza logica dell'intera motivazione, viziando la sentenza impugnata.
Con il secondo motivo è stata dedotta violazione di legge, ed in specie degli artt. 590 cod. pen. e 97 d.lgs. n. 81 del 2008, per avere erroneamente individuato in tale ultima norma la disposizione cautelare violata.
Il DL.I.A. contesta l'affermazione resa nella sentenza gravata per cui costui sarebbe stato ritenuto responsabile di non avere preventivamente verificato lo stato dei luoghi e di non aver, conseguentemente, fornito le necessarie informazioni ai suoi dipendenti, ritenendo tale obbligo fondato giuridicamente sulla norma dell'art. 97 d.lgs. n. 81 del 2008. Tale disposizione, invece, non sarebbe applicabile al caso di specie, considerato che essa si riferirebbe unicamente alle misure di sicurezza da adottarsi nei cantieri temporanei o mobili e che, nella specie, non trattavasi di lavori da svolgersi in un cantiere, così come normativamente individuato dall'art. 89, comma 1 lett. a), d.lgs. n. 81 del 2008.
Con la terza censura viene lamentata contraddittorietà della motivazione in ordine alla denuncia di violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., per mancata correlazione tra imputazione e sentenza di primo grado, nonché inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità.
La Corte di appello avrebbe errato nel non ravvisare la sussistenza della violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, laddove il DL.I.A., imputato di avere omesso di allestire delle opere provvisionali idonee a proteggere il lavoratore dalla caduta dall'alto e la stesura di un Piano Operativo di Sicurezza (POS), era stato, poi, condannato in prime cure perché ritenuto responsabile, invece, di non aver informato la persona offesa dello stato dei luoghi in cui avrebbe dovuto effettuare il lavoro richiesto.
La motivazione resa dalla Corte territoriale sarebbe, pertanto, errata perché non terrebbe conto del fatto che al DL.I.A. non era stata ascritta in imputazione nessuna condotta di deficit informativo - invece riferita, in via esclusiva, al committente dei lavori S.V., cui normativamente pertiene ai sensi dell'art. 26, comma 1 lett. b), d.lgs. n. 81 del 2008 -.
La presunta mancanza di informazione da parte del DL.I.A. non sarebbe mai stata oggetto di contraddittorio nel giudizio, essendogli stata addebitata solo nell'atto finale del primo grado, con imputazione di un'azione del tutto diversa da quella originariamente contestatagli, incompatibile con la difesa fino ad allora predisposta.
Con l'ultima doglianza il DL.I.A. ha dedotto, infine, mancanza di motivazione in ordine alla censura contenuta nel terzo motivo di appello, inerente all'assenza dell'elemento soggettivo del reato ex art. 590 cod. pen.
Risulterebbe, in particolare, carente la motivazione del giudice di secondo grado per non aver valutato l'impossibilità da parte del DL.I.A. di prevedere la condotta imprudente ed anomala colposamente perpetrata dal V.A., cui unicamente si dovrebbe imputare la verificazione dell'evento lesivo. Il DL.I.A. aveva fornito al lavoratore tutti i mezzi necessari alla prevenzione e alla sicurezza, al contempo adempiendo ai necessari obblighi formativi, per cui il datore di lavoro, secondo un giudizio di prevedibilità ex ante, aveva adottato tutte le cautele possibili, sì da non poter essere ritenuto responsabile per una condotta imprevedibilmente colposa posta in essere da un suo dipendente, peraltro avente molti anni di esperienza.
Tale giudizio sulla prevedibilità della condotta, e dunque sulla ricorrenza dell'elemento soggettivo del reato, non sarebbe stato svolto dalla Corte territoriale, così da indurre al necessario annullamento della decisione gravata.

4. Il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte, con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.


Diritto




1. Il proposto ricorso non è fondato, per cui lo stesso deve essere rigettato.


2. In primo luogo priva di ogni fondamento è l'introduttiva doglianza, con cui il DL.I.A. ha contestato la ricorrenza di un travisamento della prova, per non avere la Corte territoriale ricostruito in modo corretto le evidenze emerse dalle acquisizioni probatorie, per l'effetto inferendo che al momento della sua caduta la persona offesa stava eseguendo un mero sopralluogo, unicamente finalizzato alla visualizzazione della caldaia, all'individuazione della sua collocazione, ai lavori da svolgere ed alla determinazione di quali apprestamenti di sicurezza adottare per l'esecuzione del successivo intervento.
Tale motivo, a prescindere da ogni considerazione circa la possibilità da parte di questa Corte di legittimità di offrire una lettura del compendio probatorio alternativa a quella, invero logica e congrua, resa dai giudici di seconde cure, è da ritenersi comunque irrilevante. L'accertare, infatti, se nella specie trattavasi, o meno, di un mero sopralluogo è un dato non determinante e neutro rispetto alla responsabilità così come ascritta all'imputato.
Tale sopralluogo, infatti, era stato comunque effettuato dal V.A., su espressa richiesta del DL.I.A., senza aver ricevuto nessuna preventiva informazione che, invece, il datore di lavoro avrebbe dovuto dispensare e che avrebbe potuto consentire alla vittima di acquisire consapevolezza della situazione cui stava andando incontro, adottando le necessarie cautele. All'imputato è stato contestato un deficit informativo in ordine agli specifici rischi esistenti nell'ambiente in cui il lavoratore era destinato ad espletare la prestazione, senza che, all'evidenza, rispetto a tale obbligo possa rilevare distinguo alcuno, a seconda che si tratti di attività preliminare o di diretta esecuzione della specifica incombenza richiesta al lavoratore.
Luogo di lavoro è, poi, ogni tipologia di spazio idoneo ad assumere tale qualità, a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro o esso sia accessibile al lavoratore nell'ambito del proprio lavoro (così, tra le tante, Sez. F, n. 45316 del 27/08/2019, Giorni, Rv. 277292-01; Sez. 4, n. 43840 del 16/05/2018, C., Rv. 274265-01; Sez. 4, n. 2343 del
27/11/2013, dep. 2014, S., Rv. 258435-01).
3. Parimenti infondato è il successivo motivo, con cui il ricorrente ha ritenuto non correttamente individuata la norma cautelare violata in quella del disposto dell'art. 97 d.lgs. n. 81 del 2008, sul presupposto che essa si applicherebbe solo alle misure di sicurezza da adottarsi nei cantieri temporanei o mobili e che, nella specie, non si trattava di lavori da svolgersi in un cantiere, così come normativamente individuato ai sensi dell'art. 89, comma 1 lett. a), d.lgs. n. 81 del 2008.
Ad avviso del Collegio, invece, il ricorrente erra nell'affermare il superiore assunto, osservato che, in termini del tutto antitetici, il DL.I.A. - svolgente le mansioni di elettricista - era stato incaricato di espletare il collegamento elettrico di una caldaia appena installata e che i lavori elettrici sono annoverati nell'elenco riportato nell'allegato X dell'art. 89, comma 1 lett. a), d.lgs. n. 81 del 2008 ai fini dell'esatta individuazione della nozione di cantiere temporaneo o mobile.
4. Stesso giudizio di mancata fondatezza deve essere espresso anche con riguardo al motivo dedotto con la terza censura, avente ad oggetto la ritenuta ricorrenza di una carenza di correlazione tra imputazione e sentenza di primo grado conseguente al fatto che il DL.I.A., imputato di avere omesso di allestire delle opere provvisionali idonee a proteggere il lavoratore dalla caduta dall'alto e la stesura di un Piano Operativo di Sicurezza (POS), era stato, poi, condannato perché ritenuto responsabile di non aver informato la persona offesa dello stato dei luoghi in cui avrebbe dovuto effettuare il lavoro richiesto.
Assume rilievo, in proposito, il consolidato indirizzo ermeneutico di questa Corte per cui, ai fini della ricorrenza di una violazione del principio di correlazione ex art. 521 cod. proc. pen., non è sufficiente una qualsiasi modificazione dell'originaria accusa, ma necessita una modifica che sia tale da pregiudicare la possibilità di difesa dell'imputato. Tale violazione, pertanto, non sussiste allorquando nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l'imputato in condizioni di difendersi dal fatto successivamente ritenuto in sentenza, da intendersi come accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi esatti contorni (cfr. Sez. 5, n. 7984 del 24/9/2012, dep. 2013, Jovanovic, Rv. 254648-01).
Non sussiste, quindi, violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ai sensi dell'art. 521 cod. proc. pen. qualora, in relazione a vicende obiettivamente complesse, la sentenza abbia affermato la penale responsabilità dell'imputato sul fondamento di una ricostruzione dei fatti arricchita e conformata alla stregua degli elementi emersi in istruttoria, atteso che, ad assicurare l'esercizio in concreto del diritto di difesa, è sufficiente che l'imputazione enunci in termini chiari gli elementi essenziali degli addebiti (così, Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555-01).
Ancora, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, non è diverso il fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, laddove la differente condotta realizzativa sia emersa dalle risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato, di modo che anche rispetto ad essa egli abbia avuto modo di esercitare le proprie prerogative difensive (Sez. 6, n. 38061 del 17/04/2019, Rango, Rv. 277365-01).
In termini ancor più specifici, poi, è stato affermato che, in tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere, agli elementi di fatto contestati, altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Sez. 4, n. 7940 del 25/11/2020, dep. 2021, Chiappalone, Rv. 280950-01).
Trattasi, all'evidenza, di principi affermati in coerenza con quanto disposto dal novellato comma 5 dell'art. 111 Cost., ma anche con quanto previsto dall'art. 6 della Convenzione EDU, siccome interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, a partire dalla nota pronuncia Drassich c. Italia (cfr. CEDU 2 Sez. 11 dicembre 2007), nonché, ancor più di recente, con la decisione del 22 febbraio 2018, Drassich c. Italia (n. 2), con la quale la Corte di Strasburgo ha escluso la violazione del citato art. 6 nel caso in cui l'interessato abbia avuto la possibilità di preparare adeguatamente la propria difesa e di discutere in contraddittorio sull'accusa alla fine formulata nei suoi confronti.
Tutto ciò è dato ravvisare nel caso di specie, essendo stato ampiamente posto l'imputato nella condizione di potersi difendere giudizialmente dall'accusa di non avere adempiuto allo specifico obbligo informativo su di lui gravante.
In proposito, infatti, appare pienamente logica e congrua, oltre che giuridicamente corretta, la motivazione con cui la Corte di appello, nel rigettare l'analoga doglianza dedotta dal DL.I.A. in secondo grado, ha espressamente osservato che «vertendosi in materia di garanzie difensive la violazione non sussiste se l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia comunque venuto a trovarsi nella concreta condizione di potersi difendere in ordine all'oggetto dell'imputazione. Nel caso di specie, peraltro, seppur contestandosi direttamente l'omessa redazione del P.O.S., l'imputazione addebita ugualmente in modo esplicito al DL.I.A. la carenza informativa, là dove contesta che il lavoratore si infortunava "in assenza di tali informazioni". Dunque, la tematica della colposa omissione di conoscenza da parte del DL.I.A. del luogo di lavoro ove comandava i propri dipendenti, con il necessario corollario della colposa omissione di previa valutazione dei rischi e strutturazione di una norma di prevenzione diretta ai dipendenti stessi, atta a neutralizzare quei rischi, ha costituito oggetto dell'imputazione e certamente, in ogni caso, dell'istruzione e della discussione dibattimentale».

5. Infine priva di fondamento è la conclusiva censura, con cui il DL.I.A. ha lamentato la ricorrenza di un'omessa motivazione con riguardo all'impossibilità da parte dell'imputato di prevedere, con giudizio ex ante, la condotta imprudente ed anomala colposamente perpetrata dal V.A., cui unicamente si dovrebbe imputare la verificazione dell'evento lesivo.
La motivazione resa da entrambi i giudici di merito, infatti, che può in questa sede essere valutata congiuntamente, stante la ricorrenza di una condanna pronunciata con doppia decisione conforme, rende palesi e congruamente motivate le ragioni per cui è stata correttamente considerata, anche sotto tale profilo, la responsabilità del prevenuto.
L'aspetto relativo alla presunta imprevedibilità della condotta della persona offesa è stato, in particolare, analizzato, con motivazione particolarmente diffusa, da parte del giudice di primo grado, che ha correttamente fatto riferimento alla giurisprudenza di questa Corte per la quale, con riguardo a casi come quello in esame, non è possibile parlare di condotta esorbitante o abnorme da parte del lavoratore.
Ed infatti, è stato reiteratamente osservato che il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendosi definire tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere da quest'ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (così in particolare, tra le tante, Sez. 4, n. 40164 del 03/06/2004, Giustiniani, Rv. 229564-01).
Nella fattispecie, pertanto, alla stregua di quanto correttamente valutato dai giudici di merito con motivazione del tutto logica e congrua - come tale non sindacabile da questa Corte di legittimità -, trattandosi di mansioni e lavorazioni ordinarie cui il lavoratore era adibito, la condotta eventualmente imprudente o negligente da costui assunta sarebbe comunque inidonea ad escludere la ricorrenza della causalità, così come della responsabilità del datore di lavoro, avendo quest'ultimo mancato di adempiere agli obblighi informativi di sua precipua spettanza.
Nessun rilievo assume, poi, la circostanza che il V.A. fosse un lavoratore esperto, considerato che, in tema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, l'adempimento degli obblighi di informazione e formazione dei dipendenti, gravante sul datore di lavoro, non è escluso né è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenza che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro (Sez. 4, n. 22147 del 11/02/2016, Marini, Rv. 266860-01).

6. In esito alle superiori considerazioni, deve, pertanto, essere disposto il rigetto del proposto ricorso, cui consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del DL.I.A. al pagamento delle spese processuali.



P.Q.M.




Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 16 novembre 2021


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