Cassazione Penale, Sez. 4, 13 dicembre 2021, n. 45575 - Ustioni mortali del lavoratore durante la costruzione di un edificio. Pericolosa prassi contra legem e responsabilità del direttore tecnico, responsabile della sicurezza e responsabile di cantiere

2021

Fatto


1. Con sentenza del 4/3/2019, la Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza, appellata dagli imputati P.M., A.A. e G.C., con la quale il GUP del Tribunale di Asti, all'esito di giudizio abbreviato, li aveva condannati, riconosciute a tutti le circostanze attenuanti generiche e quella del risarcimento del danno e valutate le stesse equivalenti all'aggravante, operata la riduzione per il rito, alla pena di mesi otto e giorni 10 di reclusione, con la sospensione condizionale della pena e la non menzione, in quanto li aveva riconosciuti colpevoli dell'reato di cui all'art. 589 c.p., comma 1, 2 e 4 perché: - M.P. quale direttore tecnico del cantiere edile sito in (OMISSIS), (OMISSIS) della società M. & A. S.r.l., con sede in (OMISSIS), (OMISSIS), - A.A. quale responsabile della sicurezza sui cantieri della società M. & A. S.r.l. - C.G. quale responsabile del predetto cantiere anche con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro, per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia nonché: - violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 225, comma 1, avendo omesso di provvedere, sulla base delle attività e della valutazione dei rischi di cui all'art. 223, all'eliminazione o alla riduzione dei rischi mediante la sostituzione con altri agenti o processi che nelle condizioni d'uso non fossero o fossero meno pericolosi per la salute dei lavoratori ed in particolare facendo utilizzare il prodotto "(OMISSIS) "della (OMISSIS) risultante (sulla base della scheda tecnica di sicurezza) altamente infiammabile a fronte della presenza in commercio di altri prodotti non infiammabili o a basso tasso di infiammabilità; - violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 225, comma 1. lett. b) avendo omesso di provvedere ad adottare appropriate misure organizzative e di protezione dei lavoratori alla fonte del rischio, omettendo di abbattere la concentrazione dei vapori mediante ventilazione artificiale; - violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 225, comma 5, avendo omesso di predisporre idonee misure di vigilanza e di controllo affinché in cantiere non fossero presenti fonti di innesco e di accensione; - violazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 96, avendo omesso di valutare nel P.O.S. il rischio per "calore e fiamme" in relazione all'uso di prodotti infiammabili nella fase di pavimentazione e di rivestimento, di effettuare nel P.O.S. una descrizione delle specifiche attività e delle singole lavorazioni svolte in cantiere dall'impresa, di elencare le sostanze ed i preparati pericolosi utilizzati in cantiere con le relative schede di sicurezza, di individuare misure preventive e protettive integrative rispetto a quelle del P.S.C. e non provvedendo a che nel cantiere fosse presente un addetto all'antincendio; - violazione di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 163, comma 1 avendo omesso di predisporre la segnaletica di sicurezza conformemente alle prescrizioni di cui all'Allegato XXIV, non facendo apporre cartelli indicanti il pericolo di incendio e di vapori nocivi nonostante la scheda tecnica del prodotto indicasse la sua alta infiammabilità e tempi di essiccazione del prodotto della durata di dieci-quindici ore; - violazione di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 46, comma 2, avendo omesso di adottare idonee misure per prevenire gli incendi e tutelare l'incolumità dei lavoratori, non mettendo a disposizione dei lavoratori in prossimità dell'area in cui si espletava l'attività lavorativa degli estintori o altre misure antincendio; - violazione di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 36, comma 1 lett. b) e comma 2 lett. a) e b), avendo omesso di provvedere affinché i lavoratori ricevessero un'adeguata informazione sulle procedure che riguardano il primo soccorso, la lotta antincendio e l'evacuazione dai luoghi di lavoro, nonché avendo omesso di provvedere affinché i lavoratori ricevessero un'adeguata informazione sui rischi specifici a cui erano esposti in relazione all'attività svolta e sui pericoli connessi all'uso delle sostanze e dei preparati pericolosi utilizzati; - violazione di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 37, avendo omesso di formare i lavoratori sui rischi derivanti dall'attività lavorativa intrapresa a dalle conseguenti misure di prevenzione e protezione, con particolare riferimento all'utilizzo di prodotti infiammabili nella rase di pavimentazione e di rivestimento; cagionavano la morte del lavoratore C.D. il quale, dopo avere proceduto con l'uso di una cazzuola alla stesura del prodotto "(OMISSIS)" della (OMISSIS) sulle rampe delle scale del cantiere sito in (OMISSIS), (OMISSIS). accendeva con un accendino una sigaretta a C.G., che in quel momento si trovava occasionalmente all'interno del cantiere e successivamente procedeva a pulire con l'uso di un accendino la cazzuola intrisa di prodotto con la conseguenza che le fiamme unite ai vapori presenti innescavano un incendio che investiva il lavoratore C.D. che riportava gravissime ustioni di II e III grado sul 90% della superficie corporea in conseguenza delle quali decedeva per arresto cardiorespiratorio in data (OMISSIS) presso l'Ospedale C.T.O. di (OMISSIS), nonché cagionavano a C.G. lesioni personali consistite in ustioni di secondo e terzo grado agli arti inferiori da cui derivava una malattia giudicata guaribile in trenta giorni. Con l'aggravante di avere cagionato la morte di C.D. e lesioni personali a C.G.. In (OMISSIS), il (OMISSIS) - Morte avvenuta il (OMISSIS). 2. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 c.p.p., comma 1, disp. att.: - P.M. e A.A., con unico atto a mezzo del comune difensore di fiducia Avv. Aldo Mirate del Foro di (OMISSIS) propongono sei motivi di ricorso, con i quali si denunziano promiscuamente violazione di legge e difetto di motivazione. Con il primo motivo lamentano violazione dell'art. 589 c.p., e mancanza di motivazione con riferimento alle censure proposte nel primo dei motivi di appello relativamente alla attendibilità delle testimonianze di G.C. e di V.P., presenti ai fatti, censure che non sarebbero state valutate dalle corte di merito, che ha stimato, conformemente al tribunale, attendibili le deposizioni dei due testi oculari, che vengono invece ritenuti dalle difese mendaci, incoerenti, tra di loro contraddittorie ed interessate ( C. essendo persona offesa). In conseguenza sarebbe violato anche il criterio di giudizio di cui all'art. 192 c.p.p.. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano l'ulteriore violazione degli artt. 589 e 192 c.p.p., e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alle censure proposte nel primo motivo di appello relativamente alla attendibilità delle testimonianze di G.C. e di V.P. anche in relazione alle dichiarazioni rese da E.T., vedova C., e dalla dottoressa J.K., il medico che per primo soccorse la vittima, e dalle persone escusse nel corso di indagini difensive. In particolare, la Corte territoriale non avrebbe dato risposta, o ne avrebbe fornita di inadeguata, quanto alle seguenti circostanze: 1. che il defunto non fumasse e che non possedesse un accendino (come riferito dalla teste E.T. C.); 2. che lo stesso risulta avere riferito al medico, giunto immediatamente dopo l'incendio, che una sigaretta era caduta sul pavimento, gridando "chi me l'ha fatto fare" (testimonianza Dott.ssa K.); 3. che nessuno dei compagni di lavoro escussi ai sensi dell'art. 391 bis c.p.p., ha riferito della prassi di incendiare le cazzuole per pulirle del materiale. Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono di altra violazione degli artt. 589 e 192 c.p.p., e di manifesta illogicità della motivazione con riferimento alle censure proposte nel primo motivo di appello relativamente alle modalità di innesco dell'incendio ipotizzate dall'accusa e recepite dai decidenti. Gli elementi di fatto emersi dall'istruttoria sarebbero tali, ad avviso degli imputati, che "la dinamica in forza della quale fu originata la fiammata che investì C. non è stata compiutamente accertata nella sua sequenza eziologica (... dunque) non è provata la conclusione alla quale perviene la Corte (...) con una motivazione del tutto superficiale" (così alla p. 16 del ricorso). Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano, ancora, violazione degli artt. 589 e 192 c.p.p., e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alle censure proposte nel primo motivo di appello relativamente alla prevedibilità dell'evento in capo all'imprenditore e agli altri destinatari dell'obbligo di sicurezza. La sentenza avrebbe trascurato di "valutare i profili di colpa generica e specifica addebitati agli imputati; addebiti consacrati nel capo di imputazione in modo estremamente dettagliato. Sul punto la sentenza non si sofferma, se non in termini generici. Nell'atto di appello si è sottolineato che non si poteva rimproverare l'omessa sostituzione del prodotto con un altro meno insidioso, dal momento che lo stesso non presentava profili di pericolosità; che illogico era accusare gli imputati di aver "omesso di abbattere la concentrazione dei vapori mediante ventilazione artificiale" dal momento che sul vano scala si apriva una finestra e che lo stesso vano era quasi al livello di campagna; di aver omesso di predisporre idonee misure di vigilanza sulla presenza di eventuali fonti di innesco o di accensione dal momento che è pacifico (neppure la sentenza impugnata lo contesta) che non vi erano fonti di accensione e/o di innesco; che, conseguentemente, l'addebito di "omessa valutazione del rischio" era palesemente infondata. La sentenza impugnata, anziché prendere in considerazione minuziosamente gli argomenti specificamente trattati nell'atto di appello, addebita in modo sommario agli imputati, nelle loro specifiche qualità, la responsabilità anche in considerazione che la condotta del lavoratore, pur se "anomala", non poteva considerarsi "abnorme" ed "imprevedibile"" (così alle pp. 17-19 del ricorso). Ad avviso dei ricorrenti, non sarebbe provata l'abitualità da parte di C. di pulire la cazzuola in modo così pericoloso, non avendo i colleghi di lavoro nulla riferito al riguardo. In ogni caso - si osserva - l'obbligo datoriale di valutare i rischi non è illimitato ma ha dei confini di ragionevolezza tecnica e, al proposito, il D.M. n. 10 marzo 1998, che detta "criteri generali di sicurezza antincendio... nei luoghi di lavoro", esclude che i materiali combustibili, ove in quantità limitata e correttamente manipolati e depositati in sicurezza, possono non costituire oggetto di particolare valutazione quanto al rischio antincendio: la Corte territoriale, quindi, avrebbe omesso di valutare se il prodotto detto "(OMISSIS)", a bassissima potenzialità incendiaria, dovesse essere considerato un fattore di rischio e se tale fattore non sia stato valutato dall'imprenditore e si sarebbe limitata ad affidarsi, alla p. 20, ad argomentazioni estremamente generiche. Anche con il quinto motivo i ricorrenti lamentano violazione degli artt. 589 e 192 c.p.p., manifesta illogicità della motivazione e travisamento della prova con riferimento alle censure proposte mediante il primo motivo di appello relativamente alla violazione dell'obbligo di informazione e di formazione del lavoratore in capo all'imprenditore e agli altri garanti della sicurezza. La Corte di appello di Torino avrebbe trascurato che è emerso che il lavoratore deceduto aveva partecipato a specifici corsi che avevano ad oggetto, tra l'altro, l'elenco delle sostanze e dei preparati pericolosi, che avevano ricevuto una dispensa del corso di sicurezza base per i lavoratori edili, prodotta in giudizio, che nel cantiere era vietato fumare e che la confezione del prodotto "(OMISSIS)" recava simboli e richiami ai rischi specifici. Ad avviso dei ricorrenti, "Si tratta di documenti che la Corte ha ignorato e che viceversa erano decisivi ai fini della valutazione dell'assolvimento dei precetti di legge di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, agli artt. 36 (...) e 37. La Corte, sotto tale profilo, è caduta in un pacifico travisamento della prova dando per mancante una prova che viceversa era pacificamente presente agli atti del processo" (così alla p. 22 del ricorso). Infine, con il sesto e ultimo motivo si censura la violazione degli artt. 589 c.p., e art.41 c.p., comma 2, e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla imprevedibilità ed abnormità della condotta del lavoratore. Premesso che la Corte di merito affronta le censure mosse dai ricorrenti alla sentenza di primo grado quanto alla eventuale esorbitanza, abnormità ed eccezionalità delle condotta di D.C., si assume che la sentenza impugnata non si sarebbe confrontata con i nuovi orientamenti giurisprudenziali (espressi, tra le altre, anche da Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Lovison e altri), che hanno valorizzato il cosiddetto "principio di auto-responsabilità del lavoratore" ed hanno ritenuto interrompere il nesso di condizionamento la condotta del lavoratore che si collochi al di fuori dell'area del rischio definita dalla lavorazione in corso, che sia esorbitante ed eccentrica e non necessariamente del tutto estranea al processo produttivo, come in precedenza ritenuto dalla S.C. Ciò posto, "si ritiene di dover concludere che nessun rimprovero, in punto di fatto, può essere mosso ai ricorrenti sotto il profilo dell'obbligo di sicurezza che gli stessi avevano nei confronti dei propri dipendenti e del C. in particolare in quanto: a) il cantiere era stato puntualmente recintato e vi erano i cartelli che diffidavano gli estranei dal farvi ingresso; b) era stato fatto divieto di "fumare" nel corso delle attività lavorative e conseguentemente di usare accendini di qualsiasi sorta; c) il metodo di "incendiare la cazzuola al fine di pulirla" non solo era ignoto ai ricorrenti, ma allo stesso direttore di cantiere. Afferma, infatti, il P.: "Per quanto ne so il sistema della pulizia della Cazzuola utilizzato (accensione con accendino) non era noto al capo cantiere, sig. C., in quanto certamente lo stesso ci avrebbe diffidato dal farlo, anche perché in questo cantiere c'e' molta attenzione per la sicurezza (interr. S.Pre.S.A.L. 24/8/2009); il passaggio della testimonianza succitata, ancorché evocata nell'atto di appello, è stato totalmente ignorato dalla sentenza impugnata: d) il lavoratore aveva ricevuto una specifica informazione (risultante anche dalle etichette apparenti sulle taniche contenenti il prodotto) ed una specifica formazione (corsi sopra citati) per i rischi derivanti dalle sostanze e materie pericolose e sul pericolo nell'uso di "fiamme libere e di apparecchi generatori di calore". Alla luce di quanto sopra non si può, dunque, contestare agli imputati di avere omesso gli obblighi di cautela contemplati dal D.Lgs. n. 81 del 2008" (così alle pp. 28-30 del ricorso). Inoltre, essendosi la condotta di C. concretizzata nell'incendio di un materiale espressamente segnalato come "incendiabile", materiale le cui caratteristiche erano sotto gli occhi di tutti, essendo lo specifico simbolo apposto sulle confezioni e non essendo tale condotta del lavoratore nota ai ricorrenti, il comportamento posto in essere sarebbe radicalmente lontano dalle scelte imprudenti ipotizzabili prevedibili da parte datoriale e, benché (solo) astrattamente inserito nel perimetro delle mansioni lavorative (pulizia degli strumenti), in concreto, tuttavia, eccentrico rispetto all'area del rischio definita dalla lavorazione in corso e, quindi, in ultima analisi, interruttivo del nesso di causalità. La "colpa" datoriale, dunque, non sarebbe più tale ma nel caso di specie una mera - censurabile - responsabilità oggettiva. - G.C., a mezzo del difensore di fiducia Avv. Davide Arri del Foro di Asti propone quattro motivi di ricorso con i quali denunzia violazione di legge (il primo, il secondo ed il quarto motivo) e vizio di motivazione (il primo, il terzo ed il quarto motivo). Con il primo motivo il ricorrente lamenta l'inosservanza e l'erronea applicazione degli artt. 40 e 589 c.p. e la mancata applicazione dell'art. 41 c.p., co 2, e, nel contempo, la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla insussistenza di cause sopravvenute che escludono il rapporto di causalità. Premette il ricorrente che "sin dal primo grado di giudizio, la genesi dell'infortunio in esame fu oggetto di diverse ipotesi investigative che finirono con il concentrarsi in due teorie alternative: la cd. tesi della cazzuola (sostenuta dai soli due testi oculari e sposata inopinatamente da entrambi i giudici di merito) e la c.d. tesi della sigaretta (sostenuta dalla scrivente difesa alla luce delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato nelle immediatezze dei fatti in uno con le risultanze degli esperimenti tecnici, così come esplicitato nell'atto di appello). E' bene, tuttavia evidenziare sin da subito come sia la tesi dell'accensione di una sigaretta sia la tesi della pulitura della cazzuola rientrino, a parere della scrivente difesa, nel concetto di condotta esorbitante posta in essere colposamente dal lavoratore e non addebitabile sotto il profilo della colpa omissiva al titolare della posizione di garanzia" (così alla p. 7 del ricorso). Richiamata recente giurisprudenza di legittimità stimata pertinente (Sez. 4, n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, PMT in proc. Musso Paolo, Rv, 275017-01), il ricorrente assume avere il defunto tenuto un comportamento assolutamente esorbitante rispetto alle disposizioni impartite da parte datoriale, come emergente da due elementi: "(il primo,) la presenza di un estraneo, il sig. C. (che dagli atti è emerso non sarebbe mai entrato se il C. fosse stato in loco, ma che il teste oculare dell'infortunio, sig. P., inopinatamente e fraudolentemente introduce nel cantiere proprio quando l'odierno imputato si allontana per approvvigionare il materiale) e (, il secondo,) l'accensione di una sigaretta (nonostante il divieto espresso di fumare nel cantiere" (così alla p. 9 del ricorso). Quanto al primo aspetto, i comportamenti di C. e di P. esorbiterebbero da tutte le direttive datoriali, contravvenendo a tutte le cautele poste per la prevenzione infortuni, P. consentendo, a causa dell'assenza del responsabile del cantiere, di far intrufolare abusivamente C. nel cantiere, che era provvisto di recinzione e di divieti di accesso agli estranei, e trascurando che, secondo l'insegnamento di legittimità che si stima pertinente, la presenza di un estraneo sul luogo di lavoro al momento dell'infortunio, ove sia presenza anormale, atipica ed eccezionale, interrompe il nesso causale tra l'evento e la condotta osservante. La Corte di merito - si sottolinea - non spenderebbe una sola parola sulla presenza dell'extraneus nel cantiere. Sotto il secondo profilo, si assume che "l'accensione di una sigaretta a C.G. da parte di C.D. (... sarebbe un) gesto d'inaudita pericolosità, richiesto e posto in essere da entrambi i protagonisti nella piena consapevolezza da parte degli interessati che venisse violato il divieto di fumare vigente nel cantiere" (così alla p. 11 del ricorso), attività eccentrica rispetto quella cui l'operaio era adibito sul luogo di lavoro e costituirebbe causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento ai sensi dell'art. 41 c.p., comma 2. Inoltre, l'ipotesi alternativa proposta dalla difesa, incentrata sull'accensione della sigaretta, sarebbe dimostrata da una pluralità di elementi emersi dall'istruttoria, tra cui principalmente le parole pronunziate della stessa vittima e riferite dalla dottoressa che prima ebbe a soccorrerla. La motivazione che nega il percorso ricostruttivo sostenuto dalla difesa sarebbe contraddittoria: infatti, "e' un dato certo e assodato che se il C. non si fosse introdotto nel cantiere nonostante i divieti di ingresso e se non avesse chiesto al C. di accendergli la sigaretta nonostante il divieto espresso di fumare, l'incendio in parola non si sarebbe sprigionato (... sicché) l'accensione della sigaretta al soggetto estraneo al cantiere è quella causa sopravvenuta di per sé idonea a cagionare l'evento e ad interrompere il nesso di causa con eventuali violazioni di norme antinfortunistiche" (così alle pp. 12-13 del ricorso), posto che le prove tecniche avrebbero dimostrato che la mera presenza di una fiamma libera nei pressi del materiale provoca una fiammata tale da provocare l'incendio, evidenziandosi che la vittima era in un pianerottolo incluso tra due rampe di scale, che la giornata caldissima e che il lavoratore, che aveva appena terminato la posa, era intriso di materiale e dei relativi vapori. In conclusione, erronea ed illegittima sarebbe la esclusione da parte dei giudici di merito nel caso di specie di un fatto - la condotta del deceduto - interruttivo del nesso di causalità. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l'errata applicazione delle norme in materia di colpa specifica richiamate nel capo di imputazione e, in conseguenza, la mancata applicazione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 20. La ricostruzione che si rinviene a p. 21 della sentenza impugnata, ove si afferma essere esigibile da parte datoriale il controllo del puntuale rispetto delle prescrizioni da parte dei lavoratori, sarebbe ancorata ad un'impostazione ampiamente superata, in quanto il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 20, che si stima essere stato violato da parte di D.C., pone il principio di auto-responsabilità del lavoratore, incentrato su modello collaborativo, essendo stato abbandonato - si sottolinea - il modello iperprotettivo, come evidenziato da recente giurisprudenza di legittimità che si richiama (Sez. 4, n. 8883 del 10/02/2016, Santini e altro, Rv. 266073-01). Ad avviso del ricorrente, "Non può invero essere ragionevolmente essere sostenuto che nel caso di specie gli odierni imputati avrebbero dovuto impedire aggiramenti da parte dei lavoratori del divieto di fumare in cantiere e di detenere fonti di innesco, quasi a voler trasformare il datore di lavoro ed il responsabile di cantiere in vigilanti pronti a perquisire i dipendenti all'ingresso del posto di lavoro" (p. 15 del ricorso). Con il terzo motivo di ricorso G.C. si duole della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla tesi della "sigaretta" e della "cazzuola" in relazione alle emergenze istruttorie, in particolare agli accertamenti tecnici svolti e alle testimonianze raccolte. Sarebbe palesemente illogico e contraddittorio il percorso argomentativo dei giudici di merito, che trascurerebbe le testimonianze della dottoressa J.K., che per prima vide la vittima, e dei colleghi di lavoro, sentiti anche nel corso delle indagini difensive, confluite nel fascicolo processuale, per fondarsi esclusivamente sulle dichiarazioni di P. e di C., che si ritiene da parte del ricorrente essere stati sconfessati da tutti gli altri testimoni, sia quanto alla ricostruzione della dinamica dell'infortunio sia quanto alla prassi di C. di pulire la cazzuola dando fuoco al materiale infiammabile rimasto sulla stessa. La tesi c.d. della "cazzuola", che si assume essere stata "sostenuta in modo solitario da P. e dalla persona offesa C." (così alla p. 17 del ricorso) è stata confermata dai giudici di merito trascurando però le argomentazioni svolte alla p. 6 dell'appello e travisando (alla p. 16 della sentenza impugnata) i dati tecnici emersi all'esito delle verifiche svolte dai Vigili del fuoco e dal consulente tecnico del P.M., in quanto, pur riferendosi nella sentenza il risultato degli accertamenti, in realtà, "il teatro dell'evento non era una superficie piana, ma un vano stretto che presenta scalini, nella loro diversa altezza (anche quella in corrispondenza del viso dei due uomini), dai quali si sprigionando i vapori infiammabili, in quel frangente molto densi, per giunta in una giornata estiva, afosa e molto calda. Pertanto non può revocarsi in dubbio che i vapori di cui trattasi sprigionati dal prodotto si trovassero altresì all'altezza dei visi di C. e C.. Il dato di fatto in esame, più volte sottolineato (...) da codesta difesa (alla p. 7 dell'atto di appello), è stato completamente disatteso" (così alla p. 18 del ricorso). Insomma, "la Corte pur dando atto delle c.tteristiche di spiccata infiammabilità dei vapori sprigionati dal prodotto rispetto alla fiamma libera rappresentata da un accendino, pur dando per dimostrato che il C. ne utilizzò uno per accendere la sigaretta a C., pur affermando che i due protagonisti si trovavano nei pressi degli scalini della rampa di scala superiore e che C. impugnasse nell'altra mano la cazzuola ancora sporca di materiale infiammabile ed indossasse indumenti di lavoro sicuramente intrisi dei vapori, giunge a concludere illogicamente che la mera accensione della fiammella di un accendino non fosse causa idonea a scatenare l'innesco dei vapori e del materiale che dalle prove tecniche risultano infiammarsi in tal modo. L'approdo motivazionale sopra riportato è reso in spregio a quanto riferito dall'ing. M. a p. 36 della sua relazione, ove il consulente individua nella "fiamma libera, quale prodotta da un accendino" una certa fonte d'innesco dell'incendio se accostata a distanza sufficientemente ridotta allo strato di prodotto (v. p. 4 prove tecniche Vigili del fuoco) " (così alle pp. 19-20 del ricorso). Infine, con il quarto e ultimo motivo si denunzia promiscuamente l'erronea applicazione degli artt. 69 c.p., comma 1, e art. 133 c.p., e, in conseguenza, la mancata applicazione dell'art. 69, comma 2, c.p., e il vizio di motivazione, che sarebbe mancante e contraddittoria in ordine al diniego del giudizio di prevalenza, anziché di mera equivalenza, rispetto alla aggravante delle - pur riconosciute - circostanze attenuanti generiche e del risarcimento del danno. La valutazione della Corte territoriale al riguardo si baserebbe solo su circostanza in realtà inconferenti - si stima - rispetto a quelle legittimamente valutabili ai fini di un corretto giudizio di bilanciamento, cioè la morte di C. dopo una straziante agonia protrattasi nel tempo e la causazione di lesioni di una certa gravità anche a C.. Infatti, la sofferenza dei deceduto sarebbe estranea rispetto ai parametri utilizzabili nel giudizio ex art. 69 c.p., il risarcimento agli eredi sarebbe stato particolarmente ampio, consistente anche quello riconosciuto a C., nonostante la censurabilità del suo comportamento, e le lesioni patita dal superstite, durate soli trenta giorni, nemmeno gravi né residuanti postumi permanenti; e tutto ciò senza tenere in considerazione la positiva personalità dell'imputato, peraltro particolarmente attento e rigoroso nel garantire la sicurezza su luogo di lavoro. Tutti i ricorrenti chiedono, dunque, l'annullamento della sentenza impugnata.



Diritto



1. I motivi sopra illustrati sono infondati. L'ammissibilità degli stessi, tuttavia, trattandosi di fatti del luglio 2009, porta a che il reato di lesioni personali colpose in danno di C.G. (art. 589 c.p., comma 4 in relazione all'art. 590 c.p.) sia prescritto, per essere il relativo termine massimo spirato sin dal 2017. La sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio limitatamente al reato di cui all'art. 590 c.p., perché estinto per prescrizione e va eliminata la relativa pena (giorni 15 di reclusione ridotti per il rito a giorni 10) rideterminando pertanto quella finale in mesi otto di reclusione per ciascuno degli imputati. I ricorsi vanno, invece, rigettati nel resto. 2. Per quanto rileva in questa sede, appare preliminarmente opportuno ripercorrere i fatti, in estrema sintesi, così come puntualmente ricostruiti dai giudici di merito. P.M., A.A. e G.C., nelle qualità, rispettivamente, la prima, di direttore tecnico del cantiere edile in cui è avvenuto l'incidente per cui è processo, cantiere della società " M. & A." s.r.l., il secondo, di responsabile della sicurezza nei cantieri della soc. " M. & A.", e, il terzo, di responsabile del cantiere in cui è avvenuto l'incidente anche con riferimento alla sicurezza sui luoghi di lavoro, sono stati riconosciuti responsabili di avere colposamente cagionato la morte di D.C., operaio impegnato nella costruzione di edificio condominiale a più piani, di cui due interrati, all'interno di un cantiere edile recintato, a causa delle gravissime ustioni riportate dal lavoratore su circa il 90 per cento del corpo, il (OMISSIS), con decesso avvenuto diciotto giorni dopo. Nell'occasione ha riportato lesioni non gravi anche G.C., convivente della nipote di un altro operaio, V.P., presente anch'egli quel giorno in cantiere. Le sentenze di merito danno atto che dall'istruttoria è emerso che G.C. in quel momento era presente nel cantiere, pur non essendo dipendente né fornitore della ditta né tecnico, cioè non avendo titolo per accedervi, poiché intendeva informarsi se vi fosse bisogno di manodopera, in quanto disoccupato. In particolare, dopo che D.C. aveva terminato di stendere con una cazzuola sulle due rampe delle scale, collegate tra loro da un pianerottolo, che si snodano verso i locali interrati dell'immobile, il prodotto denominato "(OMISSIS)", cioè un materiale protettivo infiammabile che si presenta come una pasta, la cui apposizione serviva, una volta consolidato, a proteggere i gradini dai possibili danni che avrebbero potuto arrecare i lavori ancora in corso, si è verificata improvvisamente una violenta fiammata che ha invaso l'ambiente ed ha procurato lesioni sia a C. che a G.C., presente sul posto. La fiammata è stata causata, secondo la ricostruzione concordemente svolta nel doppio grado di merito, dall'avere D.C., al quale G.C. aveva chiesto di poter accendere una sigaretta, in quanto il suo accendino non funzionava, acceso, appunto, la sigaretta mediante un accendino che C. recava con sé e nell'avere poi lo stesso C., immediatamente dopo, con lo stesso accendino che aveva già in mano dato fuoco alle tracce di materiale "(OMISSIS)" che erano rimaste sulla punta della cazzuola, che teneva nell'altra mano, al fine di pulire la stessa. La cazzuola in fiamme era caduta dalle mani del lavoratore (oppure lo stesso lavoratore l'aveva lasciata cadere a terra o comunque erano caduti a terra frammenti di materiale incendiato), di talché avevano preso fuoco i vapori infiammabili che esalavano dal materiale di cui era ricoperto il pavimento, materiale contenente eptano in percentuale del 30-40% con un odore simile alla benzina, vapori 3-4 volte più pesanti dell'aria e, dunque, fisiologicamente tendenti a stratificarsi verso il basso; ciò peraltro in una giornata descritta dai testimoni come caldissima e priva di vento, in un ambiente parzialmente conchiuso dalle pareti laterali, con conseguente causazione dell'esplosione, descritta dai testi oculari come una "palla di fuoco", che ha riempito la rampa delle scale ed ha investito i due. I giudici di merito hanno escluso, anche mediante prove tecniche ed esperimenti effettuati dall'accusa per due volte nelle indagini preliminari (dalla polizia giudiziaria con l'ausilio dei Vigili del Fuoco e dal Pubblico Ministero con la collaborazione di consulente), con la partecipazione della difesa e del relativo consulente, che la caduta di un mozzicone di sigaretta ovvero l'accensione di una sigaretta mediante una fiammella collocata all'altezza della bocca potesse causare l'esplosione e l'incendio in questione, essendo, invece, indispensabile che una fiamma consistente entri in contatto con lo strato di vapori ristagnante, a causa del peso specifico, al suolo: per tale motivo non è stata accolta la ricostruzione degli accadimenti propugnata dalle difese degli imputati, secondo cui l'innesco sarebbe derivato dall'accensione della sigaretta da parte del soggetto agente e non già della cazzuola. 3. Dal punto di vista della qualificazione giuridica dei fatti, le sentenze di merito hanno ritenuto essere emerso dall'istruttoria che la pulizia della cazzuola con un metodo così pericoloso (incendio delle tracce di sostanza rimasta sulla punta), essendo stato appena steso un materiale infiammabile, fosse una rischiosa prassi individuale consolidata di C. e che i soggetti in posizione di garanzia non avessero prevenuto né impedito tale prassi né, più in generale, adeguatamente rilevato e contenuto le possibili fonti di rischio da incendio-fiamme-scoppio (impiego di materiale infiammabile, ambiente angusto, ridotta ventilazione, stratificazione di vapori infiammabili). Perciò, hanno ritenuto i giudici di merito che: 1. il geometra G.C. - responsabile del cantiere in cui è avvenuto l'incidente per cui è processo (nominato il 22 maggio 2008 assistente di cantiere) ossia "capocantiere", anche con riferimento alla sicurezza sui luoghi di lavoro, avendo ricevuto specifica delega in materia antinfortunistica; 2. l'ingegnere P.M. - direttore tecnico (dal 9 luglio 2008) del cantiere edile in cui è avvenuto l'incidente per cui è processo, con specifica delega in materia antinfortunistica; 3. il geometra A.A. - responsabile della sicurezza nei cantieri della società " M. & A.", in quanto investito con procura notarile del 20 maggio 1997 della "responsabilità assistenziale-tecnica dei cantieri con riferimento anche alla sicurezza dei luoghi di lavoro" abbiano colposamente concausato gli eventi morte di D.C. e lesioni a G.C.. Il capocantiere geom. G.C. (risultato temporaneamente assente dal cantiere al momento dell'infortunio, in quanto recatosi a prelevare del marmo), che conosceva o avrebbe dovuto conoscere la volatilità del prodotto "(OMISSIS)" e la infiammabilità dei vapori da esso sprigionati, avrebbe dovuto conseguentemente controllare, prima durante la lavorazione, tutte le persone presenti o sopraggiunte nella zona di svolgimento della lavorazione stessa. Ed i superiori ing. P.M. e geom. A.A., conoscendo o comunque dovendo conoscere la pericolosità del processo lavorativo, avrebbero dovuto impartire specifiche disposizioni nel senso anzidetto, disposizioni da attuarsi tramite il geom. C. o altro incaricato, verificando anche la puntuale applicazione delle stesse. Si è ritenuto, in definitiva, essere state violate da parte degli imputati le previsioni di cui agli artt. 225, comma 5 (omessa predisposizione di idonee misure di vigilanza e di controllo affirtithe' in cantiere non fossero presenti fonti di innesco o di accensione), 96 (omessa valutazione del rischio da calore e fiamme, con particolare riferimento all'impiego di prodotti infiammabili nella fase di pavimentazione e rivestimento) e 36-37 del D.Lgs. n. 9 aprile 2008, n. 81 (omessa formazione ed informazione dei lavoratori, in specie C., sul predetto rischio da calore e fiamme e sulle caratteristiche tecniche e sui peculiari fattori di rischio del prodotto "(OMISSIS)"); disattesi invece gli ulteriori profili di contestazione descritti dal P.M. nell'editto. Si è anche esclusa, secondo la doppia conforme valutazione dei giudici di merito, l'abnormità, l'esorbitanza e l'imprevedibilità della condotta della vittima, essendosi sottolineato che la pulizia della cazzuola è una fase dell'attività lavorativa, che essa ricade, alla pari delle altre, nella sfera dei doveri di vigilanza e di protezione del datore di lavoro, che presenta, nel peculiare contesto dato, un rischio non preso preventivamente in considerazione e che tale attività rientra nelle mansioni e nel segmento di lavoro attribuitogli; essendo irrilevante, secondo i consueti principi, quanto all'an della responsabilità datoriale, l'eventuale concorso di colpa del lavoratore. 4. Ebbene, prima di passare all'esame degli specifici motivi d'impugnazione, con particolare riferimento ai ricorsi proposti nell'interesse di P.M. e di A.A., va rilevato, quanto alla reiterata denunzia di violazione dell'art. 192 c.p.p., svolta dai ricorrenti, che, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte di legittimità, cui il Collegio aderisce, "Poiché la mancata osservanza di una norma processuale intanto ha rilevanza in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come espressamente disposto dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), non è ammissibile il motivo di ricorso in cui si deduca la violazione dell'art. 192 c.p.p., la cui inosservanza non è in tal modo sanzionata" (così questa Sez. 4, n. 51525 del 04/10/2018, M., Rv. 274191-01; in conformità v., già in precedenza, Sez. 1, n. 42207 del 20/10/2016, dep. 2017, Pecorelli e altro, Rv. 271294-01; Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567-01; Sez. 6, n. 7336 del 08/01/2004, Meta ed altro, Rv. 229159-01; Sez. 1, n. 9392 del 21/05/1993, Germanotta, Rv. 195306-01; più recentemente, v. Sez. 6, n. 4119 del 30/05/2019, dep. 2020, Romeo Gestioni s.p.a., Rv. 278196-01). Va anche qui ribadito il dictum di questa Corte secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, la denunzia cumulativa, promiscua e perplessa della inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché della mancanza, della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione rende i motivi aspecifici ed il ricorso inammissibile, ai sensi degli artt. 581 c.p.p., comma 1, lett. c) e 591 c.p.p., comma 1, lett. c), non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dai motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio (cfr. Sez. 1, n. 39122 del 22/9/2015, Rugiano, Rv. 264535; conf. Sez. 2, n. 19712 del 06/02/2015, Alota ed altri, Rv. 263541; Sez. 6, n. 800 del 06/12/2011 dep. 2012, Bidognetti ed altri, Rv. 251528, Sez. 6, n. 32227 del 16/07/2010, T., Rv. 248037). Ancore di recente è stato condivisibilmente sottolineato come sia onere del ricorrente che intende denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), a pena di aspecificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione (così Sez. 2, Sentenza n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518, nella cui motivazione, la Corte ha precisato che, al fine della valutazione dell'ammissibilità dei motivi di ricorso, può essere considerato strumento esplicativo del dato normativo dettato dall'art. 606 c.p.p., il "Protocollo d'intesa tra Corte di cassazione e Consiglio Nazionale Forense sulle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia penale", sottoscritto il 17 dicembre 2015). Peraltro, già in precedenza (Sez. 2, n. 31811 dell'8/5/2012, Sardo ed altro, Rv. 254328 che richiama i precedenti costituiti da sez. 6, n. 32227 del 16.7.2007, T. e sez. 6, n. 800 del 6.12.2011 dep. 2012, Bidognetti ed altri) secondo cui è inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso che prospetti vizi di legittimità del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa. Nel caso esaminato nella richiamata Sez. 6 n. 32227/2007, come in quello che ci occupa, il ricorrente aveva lamentato la "mancanza e/o insufficienza e/o illogicità della motivazione" in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari posti a fondamento di un'ordinanza applicativa di misura cautelare personale. Non si possono, in altri termini, indicare, alla rinfusa, come nel caso che ci occupa, tutti i possibili vizi di legittimità (qui, in aggiunta al caso suvvisto si aggiunge, in via cumulativa, anche la violazione di legge) senza specificare la violazione o il punto della motivazione attinto da vizio. In particolare, quanto al vizio motivazionale, l'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), stabilisce la ricorribilità per "mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame". Ebbene, tale disposizione, se letta in combinazione con l'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), (a norma del quale è onere del ricorrente "enunciare i motivi del ricorso, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta") evidenzia che non può ritenersi consentita l'enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente quello specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero, se come indicato nell'odierno ricorso, ad una pluralità di tali vizi, in relazione a quali specifici punti della motivazione gli stessi vadano riferiti. Ciò, nel caso che ci occupa, non è avvenuto. 5. Tanto premesso, quanto ai primi due motivi di ricorso nell'interesse di M. ed A., con cui si critica la valutazione svolta dai giudici di merito circa l'attendibilità dei due testimoni oculari e la ritenuta sottovalutazione di altre testimonianze, si osserva che, in realtà, si rinviene adeguata valutazione delle testimonianze di C. e di P. nelle sentenze di merito (da valutarsi congiuntamente, poiché, trattandosi di doppia conforme, le due decisioni si integrano a vicenda, secondo tradizionale insegnamento di questa Corte., da cui non vi è ragione alcuna di discostarsi: "Il giudice di legittimità, ai fini della valutazione della congruità della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento alle sentenze di primo e secondo grado, le quali si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile", Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, Ambrosino, Rv. 209145-01; in conformità, tra le numerose altre, Sez. 6, n. 23248 del 07/02/2003, Zanotti ed altri, Rv. 22567101; Sez. 6, n. 11878 del 20/01/2003, Vigevano ed altri, Rv. 224079-01; Sez. 3, n. 4700 del 14/02/1994, Scauri, Rv. 197497-01; più di recente, v. Sez. 5, n. 14022 del 12/01/2016, Genitoie e altro, Rv. 266617-01). La narrazione dei due testimoni viene poi corroborata, secondo la logica e congrua motivazione dei giudici di merito, dai risultati delle prove tecniche, secondo cui la caduta di un mozzicone di sigaretta ovvero l'accensione di una sigaretta mediante una fiammella collocata all'altezza della bocca non poteva causare l'esplosione e l'incendio in questione, essendo, invece, indispensabile che una fiamma consistente entrasse in contatto con lo strato di vapori che ristagnava al suolo, in ragione1del peso superiore a quello dell'aria. Ed è per tale motivo che non è stata accolta la ricostruzione degli accadimenti propugnata dalle difese degli imputati, secondo cui l'innesco sarebbe derivato dall'accensione della sigaretta da parte del soggetto agente e non già della cazzuola. La corte di appello ed il tribunale hanno inoltre spiegato, con motivazione altrettanto congrua e logica, i seguenti aspetti: 1. perché non possa prestarsi fede a quanto detto nell'immediatezza dall'infortunato alla dottoressa J.K. (in una situazione di estrema concitazione da parte di un grande infortunato, non potendosi trascurare un comprensibile interesse morale ad escludere una propria corresponsabilità nella causazione dell'infortunio); 2. perché sia irrilevante che C., secondo quanto riferito dalla moglie, non fumasse e non portasse con sé, rientrando a casa, un accendino (ben avrebbe potuto comunque procurarsi un accendino nel cantiere; non senza considerare che la dichiarazione viene della vedova); 3. perché non possa darsi per dimostrato che C. non fosse solito incendiare la punta della cazzuola in base alle dichiarazioni dei colleghi di lavoro (i colleghi infatti - hanno ritenuto i giudici di merito - hanno espresso proprie opinioni senza spiegare se esistessero precise e formali direttive datoriali). Quanto al terzo motivo di ricorso, incentrato sulle modalità dell'innesco, ritenute non compiutamente accertate, in realtà, le sentenza di merito hanno ritenuto, in base alle testimonianze delle persone che hanno assistito, ai risultati degli accertamenti tecnici ed al rinvenimento sul luogo di un pezzetto del meccanismo di funzionamento di un accendino, che la fiammata sia stata causata dall'avere D.C., cui G.C. aveva chiesto di poter accendere una sigaretta, in quanto il suo accendino non funzionava, acceso, appunto, la sigaretta mediante un accendino che C. recava con sé e nell'avere lo stesso C., subito dopo, con lo stesso accendino che aveva in mano dato fuoco alle tracce di materiale "(OMISSIS)" che erano rimaste sulla punta della cazzuola, al fine di pulire la stessa. Successivamente, essendo la cazzuola caduta dalle mani del lavoratore oppure avendo lo stesso lasciato cadere a terra la cazzuola in fiamme ovvero essendo caduti a terra frammenti di materiale incendiato, hanno preso fuoco i vapori infiammabili che esalavano dal materiale di cui era ricoperto il pavimento, vapori 3-4 volte più pesanti dell'aria e dunque fisiologicamente tendenti a stratificarsi verso il basso, in una giornata caldissima e priva di vento, in un ambiente parzialmente conchiuso dalle pareti laterali, con conseguente causazione dell'esplosione, descritta dai testimoni oculari come una "palla di fuoco", che ha riempito la rampa delle scale ed ha investito i due malcapitati. Si tratta di motivazione che risulta congrua e logica che, sia pure con qualche variabilità nel momento immediatamente successivo all'accensione della cazzuola da parte di C., riconduce a tale pericoloso gesto l'incendio. Si e', inoltre, motivatamente escluso da parte dei giudici di merito che la caduta di un mozzicone di sigaretta ovvero l'accensione di una sigaretta mediante una fiammella collocata all'altezza della bocca potesse causare l'esplosione e l'incendio in questione, essendosi, invece, ritenuto indispensabile che una fiamma consistente entrasse in contatto con lo strato di vapori ristagnate al suolo. E ciò all'esito delle prove tecniche e degli esperimenti effettuati dall'accusa per due volte nelle indagini preliminari (dalla polizia giudiziaria con l'ausilio dei Vigili del Fuoco e dal Pubblico Ministero con la collaborazione di consulente), con la partecipazione della difesa e del relativo consulente, atti legittimamente confluiti nel processo, essendosi celebrato giudizio abbreviato. Ed è per tale motivo che non è stata accolta la ricostruzione degli accadimenti propugnata dalle difese degli imputati, secondo cui l'innesco sarebbe derivato dall'accensione della sigaretta da parte del soggetto agente e non della cazzuola. 6. In ogni caso, i temi sinora affrontati ripropongono, in sostanza, questioni in fatto già adeguatamente affrontate e risolte nelle sentenze di merito, senza che possano ravvisarsi violazioni di legge né "travisamenti". Peraltro, è ben noto che, dinanzi ad doppia pronuncia di eguale segno, c.d. "doppia conforme", come nel caso di specie, il vizio di travisamento della prova (nell'accezione di vizio di tale gravità e centralità da scardinare il ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per l'essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio non considerato ovvero alterato quanto alla sua portata informativa, secondo la nozione pacificamente accolta nella giurisprudenza di legittimità: v., ex plurimis, Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774-01; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499-01; Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, Buraschi, Rv. 243636-01; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, Rv. 237207-01; più recentemente, Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758-01) può essere rilevato in sede di legittimità soltanto nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado. Invero, sebbene in tema di giudizio di cassazione, in forza della richiamata novella dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ad opera della L. 220 febbraio 2006, n. 46, risulti sindacabile il vizio di travisamento della prova (che sia desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti specificamente indicati dal ricorrente), travisamento che si ha quando nella motivazione si fa uso di un'informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (cfr., tra le tante, Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, dep. 2014, Capuzzi e altro, Rv. 258438-01; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013, dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432-01; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499-01; oltre alle già citate Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774-01; Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, Buraschi, Rv. 243636-01; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, Rv. 237207-01). Nel caso di specie i giudici di appello hanno, in realtà, riesaminato lo stesso identico materiale probatorio già sottoposto al tribunale, senza operare richiami a dati probatori non esaminati dal primo giudice né introdurne di nuovi, e, dopo aver preso atto delle censure degli appellanti, sono giunti alla medesima conclusione della sussistenza di penale responsabilità di tutti gli imputati. Sviluppando i principi suesposti, deve dunque ritenersi che la sentenza impugnata, quanto ai temi sinora trattati, non contenga alcun travisamento della prova o dei fatti e che, sotto il profilo del denunziato, sotto plurimi profili, difetto motivazionale, regga al vaglio di legittimità, non palesandosi assenza, contraddittorietà od illogicità della motivazione. 7. Infondati sono anche il quarto motivo di ricorso, relativo al tema delle prevedibilità dell'evento in capo alla parte datoriale, e il quinto motivo, riguardante il tema della necessità in capo al datori di lavoro nel garantire, anche attraverso opportuna attività informativa e formativa preventiva, la sicurezza dei lavoratori, ed al sesto motivo, afferente alla prevedibilità e alla abnormità e/o esorbitanza o meno della condotta della vittima, puntualizzato brevemente che sono stati espressamente disattesi vari profili di contestazione descritti dal P.M. nell'editto, sui quali pure si sofferma l'impugnazione ed anche che i giudici di merito hanno - legittimamente - desunto la circostanza della abitudine di C. di pulire la cazzuola dando fuoco al prodotto residuo dalla testimonianza di P., giudicato attendibile, secondo il quale già in precedenti occasioni C. aveva fatto ricorso a tale improprio metodo (p. 19 della sentenza impugnata e p. 15 di quella di primo grado). Il teste P., come si è appena visto, riferisce che già in precedenti occasioni C. aveva fatto ricorso a tale improprio metodo (p. 19 della sentenza impugnata e p. 15 di quella di primo grado), e, in virtù degli specifici doveri di controllo che gravavano sugli odierni ricorrenti, non è necessario provare che gli odierni imputati abbiano visto C. fare ciò. Se sul cantiere, anche da parte di un solo operaio, era invalsa tale pericolosa prassi, era proprio compito degli odierni ricorrenti, nell'ambito delle specifiche posizioni di garanzia rivestite, contrastarla. La posizione di garanzia dell'ing. P.M. è stata individuata in quella di direttore tecnico (a partire dal 9 luglio 2008, infortunio del 27 luglio 2002) del cantiere edile in cui è avvenuto l'incidente per cui è processo, con specifica delega in materia antinfortunistica; mentre quella di A.A. è stata individuata in quella di responsabile della sicurezza nei cantieri della società " M. & A.", in quanto investito con procura notarile del 20 maggio 1997 della "responsabilità assistenziale-tecnica dei cantieri con riferimento anche alla sicurezza dei luoghi di lavoro". Ebbene, quanto alla figura del "direttore tecnico", deve rammentarsi che, secondo la condivisibile Sez. 4, n. 39606 del 28/06/2007, Marchesini e altro, Rv. 237879-01, da cui non vi è ragione per discostarsi, "In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tra i destinatari degli obblighi dettati dal D.P.R. n. 27 aprile 1955, n. 547, art. 4, devono annoverarsi anche il direttore tecnico ed il "capo cantiere", figure inquadrabili nei modelli legali, rispettivamente, del dirigente e del preposto"; in disparte - per ora - il ruolo di "capo cantiere", di cui si tratterà poi, si osserva come nel caso di specie il direttore tecnico ing. P.M. avesse anche espressa delega in materia antinfortunistica (peraltro, in linea di principio nemmeno necessaria, in quanto "In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, i dirigenti e i preposti, ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 1 comma 4 bis, sono, in quanto tali e nell'ambito delle rispettive competenze ed attribuzioni, destinatari "iure proprio" e senza necessità di un'apposita delega dei precetti antinfortunistici che gravano sul datore di lavoro": Sez. 4, n. 19217 del 03/02/2009, Guanella e altri, Rv. 243637-01; in precedenza in termini v. già Sez. 5, n. 6277 del 06/1272007, dep. 2008, P.M. in proc. Oberrauch e altro, Rv. 238749-01). Dal punto di vista contenutistico, la risalente ma tuttora valida - anche nel diverso contesto normativo- pronunzia di questa Sez. 4, n. 1345 del 01/07/1992, dep. 1993, Boano e altro, Rv. 193034-01, ha affermato che "In tema di infortuni sul lavoro, ai sensi del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 4 sono, tra gli altri, destinatari delle norme di prevenzione e responsabili, nell'ambito delle proprie attribuzioni e competenze, delle inosservanze di tutte le disposizioni del citato D.P.R. n., i dirigenti tecnici, ossia coloro che sono preposti alla direzione tecnico-amministrativa dell'azienda o di un reparto di essa con la diretta responsabilità dell'andamento dei servizi e, quindi, institori, gerenti, direttori tecnici o amministrativi, capi-ufficio, capi-reparto che partecipano solo eccezionalmente al lavoro normale. Tali dirigenti, sempre in forza della surrichiamata norma, devono predisporre tutte le misure di sicurezza fornite dal capo dell'impresa e stabilite dalle norme, devono controllare le modalità del processo di lavorazione ed attuare nuove misure, anche non previste dalla normativa, necessarie per tutelare la sicurezza in relazione a particolari lavorazioni che si svolgono in condizioni non previste e non prevedibili dal legislatore e dalle quali possono derivare nuove situazioni di pericolosità che devono trovare immediato rimedio. I dirigenti devono altresì, avvalendosi delle conoscenze tecniche per le quali ricoprono l'incarico, vigilare, per quanto possibile, sulla regolarità antinfortunistica delle lavorazioni, dare istruzioni - di ordine tecnico e di normale prudenza - affinché tali lavorazioni possano svolgersi nel migliore dei modi; in ogni caso, quando non sia possibile assistere direttamente a tutti i lavori, devono organizzare la produzione con una ulteriore distribuzione di compiti tra i dipendenti in misura tale da impedire la violazione della normativa". Quanto al responsabile della sicurezza nei cantieri, a sua volta nel caso di specie investito di apposita espressa delega, Sez. 4, n. 27738 del 27/05/2011, P.G. in proc. Scuderi e altri, Rv. 250697-01, ha affermato che "in tema di sicurezza antinfortunistica, il compito del datore di lavoro, o del dirigente cui spetta la "sicurezza del lavoro", è molteplice e articolato, e va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori e dalla necessità di adottare certe misure di sicurezza, alla predisposizione di queste misure e quindi, ove le stesse consistano in particolari cose o strumenti, al mettere queste cose, questi strumenti, a portata di mano del lavoratore e, soprattutto, al controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori rispettino quelle norme, si adeguino alla misure in esse previste e sfuggano alla superficiale tentazione di trascurarle. Il responsabile della sicurezza, sia egli o meno l'imprenditore, deve avere la cultura e la "forma minus" (recte: mentis) del garante del bene costituzionalmente rilevante costituito dalla integrità del lavoratore ed ha perciò il preciso dovere non di limitarsi a assolvere normalmente il compito di informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare sino alla pedanteria, che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro. Inoltre, lo specifico onere di informazione e di assiduo controllo, se è necessario nei confronti dei dipendenti dell'impresa, si impone a maggior ragione nei confronti di coloro che prestino lavoro alle dipendenze di altri e vengano per la prima volta a contatto con un ambiente e delle strutture a loro non familiari e che perciò possono riservare insidie non note (Cass. pen. Sez. 4, n. 6486 del 3.3.1995, Rv. 201706; Sez. 4, n. 13251 del 10.2.2005, Rv. 231156" (così nel "considerato in diritto", pp. 10-11). Ininfluente appare la circostanza, allegata dalla difesa dei ricorrenti con il sesto motivo (p. 29), secondo cui "il metodo di "incendiare la cazzuola al fine di pulirla" non solo era ignoto ai ricorrenti, ma allo stesso direttore di cantiere. Afferma, infatti, il P.: "Per quanto ne so il sistema della pulizia della Cazzuola utilizzato (accensione con accendino) non era noto al capo cantiere, sig. C., in quanto certamente lo stesso ci avrebbe diffidato dal farlo, anche perché in questo cantiere c'e' molta attenzione per la sicurezza (interr. S.Pre.S.A.L. 24/8/2009); il passaggio della testimonianza succitata, ancorché evocata nell'atto di appello, è stato totalmente ignorato dalla sentenza impugnata". Tale specifica censura, che era stata svolta, negli stessi testuali termini riferiti, alle pp. 31-32 dell'impugnazione di merito, ed alla seguente domanda posta dalla difesa ("se l'anomala condotta non era nota al C., che viveva quotidianamente in cantiere e che sovrintendeva costantemente all'attività lavorativa ed al conseguente risposta delle normative antinfortunistiche, ci si deve chiedere come poteva essere nota al geom. A. e all'ing. M. che sono gli elementi apicali di una ditta edile tra le più importanti della provincia di (OMISSIS) e che ha numerosi cantieri sparsi per l'Italia settentrionale, nonché qualche cantiere all'estero. L'obbligo di reprimere sorge solo nel momento in cui di ha notizia di una violazione della disciplina aziendale. In questo caso, non vi era certamente carenza di sorveglianza, dal momento che nel cantiere operava, per ogni ora e minuto della giornata, un capocantiere estremamente esperto, attento rigoroso, come il geom. C. (lo dice anche P.)") evidenzia, anche a dare credito alla tesi che propone, la colpevole mancata conoscenza di quanto di pericoloso accadeva sul cantiere proprio da parte di coloro cui era stato affidato il compito di gestire il rischio. 8. Le sentenze di merito danno conto, con motivazione priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto, della violazione di specifiche norme prevenzionali, a cominciare da quelle in materia di formazione-informazione sul rischio di incendi. E della mancata predisposizione di avvisi e cartellonistica. Non risulta, inoltre, operata una corretta valutazione del rischio da parte del datore di lavoro e del responsabile della sicurezza. Si è ritenuto nelle sentenze di merito essere state violate da parte degli imputati le previsioni di cui al D.Lgs. n. 9 aprile 2008, n. 81, agli artt. 225, comma 5 (omessa predisposizione di idonee misure di vigilanza e di controllo affinché in cantiere non fossero presenti fonti di innesco o di accensione), 96 (omessa valutazione del rischio da calore e fiamme, con particolare riferimento all'impiego di prodotti infiammabili nella fase di pavimentazione e rivestimento) e 36-37 del (omessa formazione ed informazione dei lavoratori, in specie C., sul predetto rischio da calore e fiamme e sulle caratteristiche tecniche e sui peculiari fattori di rischio del prodotto "(OMISSIS)"). La sentenza impugnata si colloca, pertanto, nell'alveo del consolidato orientamento di questa Corte di legittimità che individua nell'obbligo di fornire adeguata formazione ai lavoratori, uno dei principali gravanti sul datore di lavoro, ed in generale sui soggetti preposti alla sicurezza del lavoro (Sez. 4, n. 41707 del 23 settembre 2004, Bonari, Rv. 230257; Sez. 4, n. 6486 del 3 marzo 1995, Grassi, Rv. 201706). La violazione degli obblighi inerenti la formazione e l'informazione dei lavoratori integra un reato permanente, in quanto il pericolo per l'incolumità dei lavoratori permane nel tempo e l'obbligo in capo al datore di lavoro continua nel corso dello svolgimento del rapporto lavorativo fino al momento della concreta formazione impartita o della cessazione del rapporto (cfr. in tal senso Sez. 3, n. 26271 del 7/5/2019, Roscio, Rv. 276043) Il datore di lavoro deve non solo predisporre le idonee misure di sicurezza ed impartire le direttive da seguire a tale scopo, ma anche, e soprattutto, controllarne costantemente il rispetto da parte dei lavoratori, di guisa che sia evitata la superficiale tentazione di trascurarle (cfr. Sez. 4, n. 27787 del 8/5/2019, Rv. 276241 relativa alla confermata responsabilità del datore di lavoro, che aveva colposamente cagionato la morte di un lavoratore impiegato in attività di taglio di piante in assenza di adeguata formazione, nonostante l'inesperienza e la carenza di conoscenze tecniche del lavoratore nel settore di riferimento). Il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell'infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che, nell'espletamento delle proprie mansioni, ponga in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi, né l'adempimento di tali obblighi è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore (così Sez. 4, n. 8163 del 13/2/2020, Lena, Rv. 278603, che ha ritenuto immune da censure il riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro per la morte di un lavoratore, ascrivibile al non corretto uso di un macchinario dovuto all'omessa adeguata formazione sui rischi del suo funzionamento). Ne' vale ad esentare da responsabilità il datore di lavoro e il responsabile della sicurezza la presenza di un preposto. In tema di prevenzione infortuni sul lavoro il datore di lavoro, infatti, deve controllare che il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli; ne consegue che, qualora nell'esercizio dell'attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi contra legem, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche (Sez. 4, n. 26294 del 14/3/2018 Fassero Gamba Rv. 272960; conf. Sez. 4, n. 10123 del 15/1/2020, Chironna, Rv. 278608 in una fattispecie, relativa al decesso di un lavoratore colpito da una macchina escavatrice perché, in violazione del D.P.R. n. 7 gennaio 1956, n. 164, art. 12 comma 3, si trovava nel campo di azione di tale mezzo, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione del datore di lavoro che aveva escluso l'obbligo giuridico del datore di lavoro di impedire la presenza dei lavoratori nello scavo, secondo la prassi instauratasi in contrasto con la legge; Sez. 4, n. 20092 del 19/1/2021, Zanetti, Rv. 281174). Priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto - e pertanto, immune dai denunciati vizi di legittimità- appare la motivazione della sentenza impugnata laddove si rileva che, effettivamente, le deleghe ricevute dagli imputati si presentano come cumulative, contemplando tutte la gestione degli adempimenti in materia di sicurezza, sebbene a diversi livelli, sicché, in ossequio al consolidato principio richiamato nel provvedimento impugnato, in virtù del quale, quando i titolari della posizione di garanzia siano più di uno, posti sullo stesso piano o u piani diversi, ciascuno di essi è "per intero" destinatario dell'obbligo giuridico di impedire l'evento (così ex multis, le sentenze 45369/2010, 8593/2008 e 38810/2005), ciascuno di essi deve rispondere dell'evento verificatosi per l'omissione delle cautele doverose, causalmente ad esso correlate. Corretto appare anche il rilievo che, a prescindere dall'indelegabilità di obblighi incombenti sul datore di lavoro, poiché il prodotto "(OMISSIS)" era usualmente e frequentemente impiegato nelle lavorazioni dei cantieri della M. & A. (così come dichiarato dall'ing, M.), è evidente che la pericolosità del preparato doveva essere nota ai garanti della sicurezza odierni imputati, cui incombeva l'obbligo di prendere e avere contezza delle caratteristiche dei materiali utilizzati dai lavoratori al preciso scopo di salvaguardarne l'incolumità. La presenza in cantiere di una fonte di pericolo quale quella in esame, certamente imponeva ai titolari della posizione di garanzia di renderne edotti tutti i lavoratori, informandoli adeguatamente sui rischi dell'utilizzo di fiamme libere in presenza di vapori altamente infiammabili, e di approntare accorgimenti efficaci ad impedire l'introduzione, nella zona di applicazione del preparato, di fiamme o sorgenti di fiamma di qualsiasi natura, controllando, quindi, il puntuale rispetto delle prescrizioni che avrebbero dovuto essere impartite per rendere effettivo il divieto ed evitare aggiramenti da parte dei dipendenti. P.M. e A.A., conoscendo (o dovendo comunque conoscere) i rischi correlati all'impiego di tale prodotto, avrebbero dovuto, infatti, elaborare ed impartire analitiche prescrizioni sulle cautele da adottare per evitare qualsiasi contatto con fonti di innesco, dando precise disposizioni, da attuarsi tramite C., che, quale responsabile di cantiere, avrebbe dovuto sensibilizzare i lavoratori sui pericoli e controllare il puntuale rispetto da parte loro delle istruzioni ricevute. 9. Infondati sono anche tutti i motivi di ricorso proposti nell'interesse del capocantiere, geometra G.C. Allo stesso, infatti, non possono essere operati addebiti quanto alla formazione-informazione del lavoratore, in quanto, essendo mancata quest'ultima "a monte", ad opera del datore di lavoro e del responsabile della sicurezza, non poteva "a valle" essere posta in essere in concreto e specificata quella formazione. Tuttavia, egli, che conosceva o che avrebbe dovuto conoscere la volatilità del prodotto "(OMISSIS)" e l'infiammabilità dei vapori da esso sprigionati, per cui avrebbe dovuto controllare, prima durante la lavorazione, tutte le persone presenti o sopraggiunte nella zona di svolgimento della lavorazione stessa, in maniera rigorosa. Perciò, in quella fase delicata della lavorazione, in ragione dell'infiammabilità delle sostanze utilizzate, doveva essere presente in cantiere e non poteva affidarsi alla procedimentalizzazione del suo controllo. Egli avrebbe dovuto, inoltre, attentamente vigilare affinché non si instaurassero prassi pericolose, individuali o collettive che fossero. E, invece, la provata abitualità del C. nel pulire il proprio strumento di lavoro nella maniera pericolosa e sbagliata che ha portato poi all'incidente denota che il preposto, al di là dell'assenza temporanea di quel giorno, non abbia ottemperato anche in precedenza al suo obbligo di controllo, particolarmente pregnante proprio in relazione al tipo di materiale utilizzato. La sentenza impugnata opera un buon governo della costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui, quanto alla figura del capocantiere, premesso che come si è visto, "In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tra i destinatari degli obblighi dettati dal D.P.R. n. 27 aprile 1955, n. 547, art. 4, devono annoverarsi anche il direttore tecnico ed il "capo cantiere", figure inquadrabili nei modelli legali, rispettivamente, del dirigente e del preposto" e che "In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il direttore tecnico ed il "capo cantiere" sono titolari di autonome posizioni di garanzia in quanto egualmente destinatari, seppure a distinti livelli di responsabilità, dell'obbligo di dare attuazione alle norme dettate in materia di sicurezza sul lavoro. Ne consegue che la nomina di un "capo cantiere" non implica di per sé il trasferimento a quest'ultimo della sfera di responsabilità propria del direttore tecnico" (Sez. 4, n. 39606 del 28/06/2007, Marchesini e altro, rispettivamente, Rv. 237879-01 cit. e Rv. 237878-01), si è costantemente ritenuto che "In tema di sicurezza sul lavoro, il capo cantiere, la cui posizione è assimilabile a quella del preposto, assume la qualità di garante dell'obbligo di assicurare la sicurezza sul lavoro, tra cui rientra il dovere di segnalare situazioni di pericolo per l'incolumità dei lavoratori e di impedire prassi lavorative "contra legem" (Sez. 4, n. 4340 del 24/11/2015, dep. 2016, Zelanda e altri, Rv. 265977 in una fattispecie nella quale è stata ritenuta la responsabilità del capo-cantiere in ordine al reato di omicidio colposo per non aver impedito che i lavoratori operassero quotidianamente all'interno di uno scavo privo delle idonee armature di sostegno)" O, che "In tema di prevenzione degli infortuni, il capo cantiere, la cui posizione è assimilabile a quella del preposto, assume la qualità di garante dell'obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive ricevute e ne controlla l'esecuzione sicché egli risponde delle lesioni occorse ai dipendenti. (Fattispecie nella quale è stata ritenuta la responsabilità del capo-cantiere in ordine al reato di omicidio colposo per non aver impedito l'uso di un escavatore ribaltatosi per l'elevata pendenza dei luoghi)" (Sez. 4, n. 9491 del 10/01/2013, Ridenti, Rv. 254403-01) e che "In materia di prevenzione degli incidenti sul lavoro, il "capo cantiere", anche in assenza di una formale delega in materia di sicurezza sul lavoro, è destinatario diretto dell'obbligo di verificare che le concrete modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative all'interno del cantiere rispettino le norme antinfortunistiche" (Sez. 4, n. 12673 del 04/03/2009, Pizzonia e altri, Rv. 243216-01). 10. A larga parte dei motivi svolti nel ricorso proposto nell'interesse del C. (nn. 1 e 3) si è già data risposta esaminando l'impugnazione nell'interesse dei due coimputati (temi del nesso di causalità, della dinamica dell'infortunio, dell'adesione alla tesi della sigaretta piuttosto che a quella della cazzuola, dell'attendibilità dei due testi oculari in sé e a confronto con i contributi degli altri testimoni, della concorrenza delle diverse posizioni di garanzia), con valutazione che vanno confermate. Merita menzione a parte la questione delle possibili implicazioni della introduzione illegittima di un terzo nel cantiere, a più riprese sottolineata - ma in maniera non pertinente - dalla difesa di C.. Ciò rileva, soprattutto, per quanto riguarda la responsabilità in ordine alle lesioni patite dal C.. Ebbene, si è puntualizzato da parte di questa Corte di legittimità - e va qui ribadito- che "in materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, appartiene al gestore del rischio connesso all'esistenza di un cantiere anche la prevenzione degli infortuni di soggetti a questo estranei, ancorché gli stessi tengano condotte imprudenti, purché non esorbitanti il tipo di rischio definito dalla norma cautelare violata" (così questa Sez. 4, n. 38200 del 12/5/2016, Marano, Rv. 267606-01 in un caso in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell'imputata, proprietaria di un appartamento nel quale erano in corso lavori di ristrutturazione, per le lesioni riportate da un vicino che, recatosi nell'immobile per eseguire un sopralluogo, era caduto in una botola priva di protezioni, precipitando nell'appartamento sottostante, nonostante anche egli avesse tenuto un comportamento imprudente percorrendo un tracciato diverso da quello indicatogli dall'imputata). E' stato anche condivisibilmente affermato che "in materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, il soggetto beneficiario della tutela è anche il terzo estraneo all'organizzazione dei lavori, sicché dell'infortunio che sia occorso all'"extraneus" risponde il garante della sicurezza, sempre che l'infortunio rientri nell'area di rischio definita dalla regola cautelare violata e che il terzo non abbia posto in essere un comportamento di volontaria esposizione a pericolo (così questa Sez. 4, n. 43168 del 17/06/2014, Cinque, Rv. 260947-01, in una fattispecie, nella quale l'imputato, nella qualità di responsabile per la sicurezza, è stato ritenuto colpevole della morte di un minore, che, introdottosi con degli amici in un cantiere edile, salito su un solaio, precipitava al suolo attraverso un lucernaio rimasto aperto)" Ancora, si è affermato -e va qui ribadito che "in tema di lesioni e di omicidio colposi, perché possa ravvisarsi l'ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale, il quale non può ritenersi escluso solo perché il soggetto colpito da tale evento non sia un lavoratore dipendente (o soggetto equiparato) dell'impresa obbligata al rispetto di dette norme, ma ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli artt. 40 e 41 c.p.. Ne consegue che deve ravvisarsi l'aggravante di cui agli artt. 589 c.p., comma 2, e art. 590 c.p., comma 3, nonché il requisito della perseguibilità d'ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex art. 590 c.p., ultimo comma, anche nel caso di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell'infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante e purché, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi " (così questa Sez. 4, n. 11360 del 10/11/2005, dep. 2006, P.M. in proc. Sartori, Rv. 233662 che ha ritenuto sussistente l'aggravante di cui all'art. 590 c.p., comma 3, con conseguente procedibilità d'ufficio del reato ai sensi dell'ultimo comma dello stesso articolo, in relazione ad un infortunio che aveva riguardato uno studente presente in una palestra scolastica per partecipare ad una lezione di educazione motoria). 11. Gioverà a questo punto chiarire che la Corte non intende disconoscere l'approdo ermeneutico, svolto con il secondo motivo di ricorso, della auto-responsabilità del lavoratore, non più mero creditore di sicurezza ma partecipe attivo del sistema-sicurezza aziendale (D.Lgs., n. 81 del 2008, art. 20) di cui, ad esempio, alla richiamata Sez. 4, n. 8883 del 10/2/2016, Santini e altro, Rv. 266073, secondo cui "In tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro che, dopo avere effettuato una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata attività, ha fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore. (In motivazione la Corte di cassazione ha precisato che il sistema della normativa antinfortunistica si è evoluto passando da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello "collaborativo" in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori)". Appare, tuttavia, al Collegio di palmare evidenza che il caso affrontato nella sentenza Santini è del tutto diverso da quello che ci occupa. In quel caso, infatti, si era di fronte ad un datore di lavoro che aveva fornito al lavoratore tutti i dispositivi di sicurezza e aveva adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, e a fronte di ciò si era registrata una condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore. In quello all'odierno esame, invece, siamo di fronte all'accertata (pericolosissima) prassi individuale della pulizia del proprio attrezzo di lavoro da parte del lavoratore con una fiamma libera in un contesto in cui veniva utilizzato un materiale altamente infiammabile e di soggetti investiti di specifiche attività di controllo che tale controllo non hanno adeguatamente effettuato. E a garanti che, inoltre, non hanno formato-informato il lavoratore sullo specifico rischio-incendio, né hanno dotato l'ambiente di lavoro di idonei cartelli o avvisi che segnalassero lo specifico rischio (il che è cosa diversa, con tutta evidenza, da quelli che indicavano il generico divieto di fumare). E' evidente, dunque, che siamo anche al di fuori del comportamento abnorme del lavoratore, da intendersi come condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa - se così fosse idonea ad escludere il nesso causale-in quanto non solo esorbitante dalle mansioni affidate al lavoratore, ma anche tale da attivare, nell'ambito delle stesse, un rischio eccentrico od esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia. In proposito, si rimanda alla recente pronuncia (Sez. 4 n. 27871 del 20/3/2019, Simeone, Rv. 276242) che, ribadendo il concetto di "rischio eccentrico", ha puntualizzato che, perché possa ritenersi che il comportamento negligente, imprudente e imperito del lavoratore, pur tenuto in esplicazione delle mansioni allo stesso affidate, costituisca concretizzazione di un "rischio eccentrico", con esclusione della responsabilità del garante, è necessario che questi abbia posto in essere anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente, così che, solo in questo caso, l'evento verificatosi potrà essere ricondotto alla negligenza del lavoratore, piuttosto che al comportamento del garante (si trattava di un caso di omicidio colposo, in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro in quanto la mancata attuazione delle prescrizioni contenute nel POS e la mancata informazione del lavoratore avevano determinato l'assenza delle cautele volte a governare anche il rischio di imprudente esecuzione dei compiti assegnati al lavoratore infortunato). 12. Inammissibile è l'ultimo motivo di ricorso proposto nell'interesse di C., con cui si contesta la motivazione e l'esito del giudizio di bilanciamento e la violazione dell'art. 69 c.p., si osserva quanto segue. Il confronto con il secondo motivo dell'atto di appello conduce alla valutazione da parte del collegio di inammissibilità della censura per violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 3, ultima parte, segnalandosi, in realtà, una violazione di legge che non era stata previamente dedotta nell'impugnazione di merito; quanto al denunziato difetto di motivazione, esso è insussistente, trattandosi di doppia conforme non incongruamente motivata con riferimento alla gravità delle violazioni riscontrate, alla straziante agonia protratta nel tempo della vittima ed alle lesioni di una certa gravità comunque patite da C. (p. 22 della sentenza impugnata e p. 19 di quella del Tribunale). Infine, si prende atto che gli elementi fattuali valorizzati nel ricorso (entità dei risarcimenti e personalità dell'imputato) non erano stati previamente sottoposti all'attenzione della Corte di merito, come si evince dalla lettura della p. 8 dell'atto di appello, che sul punto si risolve in una mera postulazione rivolta al "buon cuore" del decidente.



P.Q.M.



Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all'art. 590 c.p., perché estinto per prescrizione ed elimina la relativa pena rideterminando quella finale in mesi otto di reclusione per ciascuno degli imputati. Rigetta i ricorsi nel resto.


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