Cassazione Penale, Sez. 4, 06 dicembre 2021, n. 44961 - Infortunio mortale durante la movimentazione di lastre di marmo: mancata adeguata valutazione del rischio

2021

Fatto




1. Con sentenza del 15 gennaio 2019 la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza di condanna a due anni di reclusione emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere - Sezione distaccata di Marcianise- in data 26 aprile 2012, ha ridotto la pena inflitta a DS.G. ad anni uno e mesi quattro di reclusione in ordine al reato di cui all'art. 589, commi 1 e 2, cod. pen. in relazione agli artt. 4, comma 2, d.lgs. n. 624 del 1994; 18, comma 1, lett. I) e 71, comma 4, lett. a) d.lgs. n. 81 del 2008, per avere, in qualità di datore di lavoro e socio accomandatario di un'impresa operativa nel settore della lavorazione delle lastre di marmo, per imprudenza, negligenza e imperizia, nonché per inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, cagionato la morte del lavoratore C.DC..

2. La Corte territoriale, nel conferire risposta alle doglianze eccepite dall'appellante, ha compiutamente rappresentato le risultanze emerse dal giudizio di primo grado, in particolar modo ribadendo che l'incidente si era verificato perché, mentre il C.DC. era intento a movimentare, unitamente ad un altro collega che azionava la gru, tre lastre di marmo, si erano staccati alcuni blocchi di marmo che gli avevano schiacciato il corpo, cagionandogli il successivo decesso per shock emorragico da politrauma. Il C.DC., in particolare, si trovava in prossimità del punto in cui dovevano essere attaccate le lastre di marmo al braccio meccanico della gru, effettuando l'operazione mediante l'utilizzo, di volta in volta, di apposite pinze, agganciate e sganciate dalla vittima.
Era stata riconosciuta la responsabilità dell'imputato per non aver indicato nel documento di valutazione dei rischi l'attività di movimentazione delle lastre di marmo - in particolar modo per ciò che attiene al rischio di loro ribaltamento -, oltre che per non aver adeguatamente formato ed addestrato i lavoratori alle sue dipendenze sulle modalità di esecuzione della movimentazione e per non aver rispettato le modalità di utilizzo allegate alla pinza di sollevamento delle lastre, in particolare non prevedendo l'apposizione di un fermo per stabilizzare la lastra in posizione di "pinza non trattenuta". L'unica prescrizione indicata a cautela, infatti, era stata quella di prevedere che i lavoratori, onde evitare il rischio di schiacciamento, si ponessero ai lati della lastra e non frontalmente ad essa - come, invece, inopinatamente effettuato dalla vittima -.

3. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, deducendo quattro motivi di doglianza.
Con il primo vengono eccepiti violazione di legge e vizio di. motivazione in relazione all'art. 40, comma 2, cod. pen. per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e comunque per omessa motivazione, da qualificarsi solo apparente con riferimento alla mancanza di un giudizio controfattuale circa il rapporto di causalità tra l'omesso e/o inadeguato inserimento del rischio nel D.V.R. del 2005 e l'evento infortunistico.
Il ricorrente lamenta, cioè, l'insussistenza di un nesso eziologico tra l'omesso inserimento nel D.V.R. del 2005 del rischio da movimentazione delle lastre di marmo e la verificazione dell'incidente mortale, eccependo l'erroneità della valutazione con cui la Corte territoriale ha ritenuto che non vi fossero specifiche regole cautelari per le varie fasi di movimentazione del marmo - essendo stato, invece, prescritto nel D.V.R. l'obbligo di porsi sempre ai lati delle lastre -, peraltro all'esito di una lettura del tutto parziale (solo una pagina) del voluminoso testo del D.V.R.
L'insussistenza del suddetto nesso causale sarebbe, inoltre, evincibile dal fatto che, procedendo con adeguato giudizio controfattuale, anche seguendo le dettagliate prescrizioni inserite nel D.V.R. del 2008 - redatto successivamente al fatto mortale - non si sarebbe potuto comunque evitare la verificazione dell'evento, osservato che le misure cautelari ivi adottate hanno riguardato la fase, successiva a quella di accadimento dell'incidente, in cui l'operaio deve procedere allo sganciamento della pinza, dando contemporaneamente un colpo di mano alla lastra per collocarla in posizione sul cavalletto. Un comportamento alternativo lecito non avrebbe, pertanto, consentito di evitare il tragico evento, determinando l'esonero dell'imputato da ogni possibile responsabilità.
Con il secondo mot ivo1 è stata dedotta manifesta illogicità della motivazione con riferimento al mancato rispetto delle procedure contenute nel manuale d'uso della pinza.
Il ricorrente rileva come anche le prescrizioni contenute nel manuale - per le quali una volta appoggiata la lastra di marmo a terra ed aver sganciato la pinza, con inclinazione in posizione di quiete, deve essere apposto un fermo di sicurezza - si riferirebbero ad una fase successiva a quella di verificazione dell'incidente, quindi assumendo una valenza neutra ed irrilevante rispetto alla causazione dell'evento. Tali prescrizioni erano, comunque, ben note al C.DC., tempestivamente reso edotto, al pari degli altri lavoratori, dei loro contenuti, pienamente rispettati all'interno dell'impresa.
Con la terza censura 1 viene lamentata omessa motivazione con riferimento alla mancata formazione ed informazione ex art. 18, comma 1, lett. I), d.lgs. n. 81 del 2008 impartita al lavoratore.
Lamenta il ricorrente che, nella sentenza gravata, la carenza di adeguata formazione della vittima sarebbe stata apoditticamente desunta dalla sola verificazione dell'evento, senza, tuttavia, procedere all'individuazione di alcuna colpa specifica riferibile, in modo immediato, all'imputato.
Con l'ultima doglianza il C.DC. ha dedotto, infine, vizio motivazionale in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, tenuto, in particolar modo, conto del risarcimento del danno eseguito in favore degli eredi che, pur ritenuto insufficiente in secondo grado per riconoscere l'attenuante ex art. 62 n. 6 cod. pen., rappresenterebbe un segno tangibile del suo intervenuto ravvedimento.

4. Il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte, con cui ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile.

5. Il difensore ha depositato una successiva memoria con la quale, ulteriormente argomentando sui motivi dedotti, ha insistito per l'accoglimento del ricorso.




Diritto




1. Il proposto ricorso non è fondato, per cui lo stesso deve essere rigettato.

2. Innanzi tutto prive di ogni fondamento sono le prime tre censure dedotte dal ricorrente, attraverso le quali, alla stregua di quanto in precedenza osservato, il DS.G. ha eccepito, rispettivamente: violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del nesso di causalità tra l'omesso inserimento del rischio nel D.V.R. del 2005 e la morte del C.DC.; vizio di motivazione con riguardo al mancato rispetto delle procedure contenute nel manuale d'uso della pinza; omessa motivazione con riferimento alla mancata formazione ed informazione ex art. 18, comma 1, lett. I) d.lgs. n. 81 del 2008 del lavoratore.
Trattasi di censure che, complessivamente considerate, nella sostanza propongono una lettura del compendio probatorio alternativa a quella, logica e congrua, resa dai giudici di seconde cure nel provvedimento impugnato. Con esse appaiono formulate, cioè, unicamente delle valutazioni in fatto, peraltro già compiutamente disattese dalla Corte territoriale nella sentenza gravata.

3. Poste negli indicati termini, allora, le sollevate doglianze, svolgendo censure sostanzialmente in fatto, finiscono per chiedere a questo Collegio di rivalutare nel merito la responsabilità dell'imputato, ritenuta asseritamente insussistente, mediante una riconsiderazione ed una diversa interpretazione delle prove assunte, invero esulante dalle specifiche competenze di questa Corte.
Giova, infatti, ribadire in questa sede che, per consolidato orientamento esegetico, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità deve essere limitato soltanto a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l'adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali (così, tra le tante, Sez. 3, n. 4115 del 27/11/1995, dep. 1996, Rv. 203272-01). Tale principio, più volte ribadito dalle varie Sezioni di questa Corte, è stato, altresì, avallato da parte delle Sezioni Unite, che hanno precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone e altri, Rv. 207945-01). Ed infatti, anche dopo la modifica dell'art. 606 lett. e) cod. proc. pen., per effetto della legge n. 46 del 2006, resta immutata la natura del sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della motivazione, essendo rimasta preclusa, al giudice di legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (così, tra le tante, Sez. 5, n. 17905 del 23/03/2006, Didone, Rv. 234109-01). In sede di legittimità, pertanto, non sono consentite le censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (cfr., ex multis, Sez. 1, n. 1769 del 23/03/1995, Ciraolo Rv. 201177-01).

4. Orbene, applicando gli indicati principi al caso di specie, può senz'altro ritenersi che la Corte di merito abbia fornito chiara e adeguata rappresentazione degli elementi di fatto considerati nella sua decisione, congruamente e logicamente motivando sulle ragioni per cui ha ritenuto comprovata la penale responsabilità dell'imputato, confermando il giudizio di condanna emesso dal decidente di primo grado.
In modo diffuso, infatti, la sentenza di appello ha dato conto delle diverse emergenze processuali da cui ha desunto la correttezza della ricostruzione effettuata da parte del primo giudice, in particolar modo osservando come le specifiche modalità di svolgimento delle operazioni di sganciamento delle lastre di marmo dalla pinza non prevedessero l'adozione di nessun dispositivo antiribaltamento, stante la sola esistenza della generica ed insufficiente prescrizione di non doversi porre frontalmente alla lastra. Per come correttamente argomentato dalla Corte territoriale, infatti, tale modalità operativa si poneva come «il frutto di una mancata adeguata valutazione del rischio di ribaltamento della lastra e concretava una procedura altamente pericolosa e non rispondente, per la verità in maniera plateale, ad un principio minimo di sicurezza se solo si tiene conto del numero e del peso delle lastre movimentate». Non risultano veritiere, poi, le confliggenti asserzioni difensive rese da parte del ricorrente, atteso che, per come osservato dal giudice di seconde cure, «dal D.V.R. dell'11.6.2005 non risulta affatto che in quella sede fosse stata operata una specifica valutazione della fase di movimentazione delle lastre e, soprattutto delle fasi inerenti il loro sollevamento e poi il loro deposito al suolo, con particolare riguardo alle modalità di aggancio e sgancio della pinza».
La particolare fase di verificazione dell'evento mortale, pertanto, non era disciplinata da un'adeguata procedura, idonea a tutelare i lavoratori dal rischio di ribaltamento delle lastre di marmo e dal conseguente loro possibile schiacciamento - invero costituente, per l'attività peculiarmente svolta in tale sede di lavoro, un rischio particolarmente pressante e concreto. Né in tale fase lavorativa era stato tenuto in alcun modo conto, come pure condivisibilmente evidenziato dalla Corte di appello, delle puntuali prescrizioni contemplate nel manuale d'uso della pinza.
Si tratta di censure che ha correttamente disatteso il giudice di merito facendo riferimento agli insegnamenti espressi da questa Corte in materia di D.V.R. e di obblighi del datore di lavoro, rispetto alle quali, invero, il ricorrente non appare essersi confrontato adeguatamente.
Il D.V.R., infatti, è uno strumento introdotto proprio allo specifico fine di prescrivere misure di sicurezza da adottare in presenza di fattori o situazioni di pericolo concretamente presenti o prospettabili nell'ambito dell'azienda, ed è il datore di lavoro ad essere chiamato alla valutazione del rischio, avendo l'obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della sicurezza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e, all'esito, redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi (cfr. Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261109-01).
Significativamente, poi, deve essere ribadito come, anche a voler ipotizzare che vi sia stata l'adozione di una condotta non corretta da parte del C.DC., assuma dirimente rilievo il principio, del pari espresso da questa Corte, per cui non è configurabile la responsabilità ovvero la corresponsabilità del lavoratore per l'infortunio occorsogli allorquando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli (Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Meda, Rv. 269255-01).
Tutto ciò induce, conseguenzialmente, a ritenere, come pure argomentato correttamente dalla Corte di appello, che nella fattispecie acquisisce un'incidenza determinante, ai fini della configurazione della responsabilità colposa dell'imputato, l'omesso suo adempimento dell'obbligo di formazione e di informazione del lavoratore, specificamente gravante sulla sua figura di datore di lavoro. Non si tratta, come pure lamentato dal ricorrente, di un'apodittica affermazione, unicamente desunta dall'intervenuta verificazione dell'evento, bensì di un'evidente e logica conseguenza dell'operato del DS.G. che, ove avesse adeguatamente formato il lavoratore, informandolo di tutti gli specifici rischi connessi allo svolgimento delle sue mansioni di operaio addetto alla movimentazione di enormi e pericolose lastre di marmo, avrebbe certamente ridotto, se non addirittura evitato, il rischio di ribaltamento di tali lastre.
Conclusivamente, quindi, deve affermarsi che, in ragione della dedotta motivazione, non appare esservi dubbio alcuno in ordine al fatto che la Corte di merito abbia fornito adeguata e convincente motivazione circa le risultanze fattuali considerate, la dinamica dell'incidente, nonché delle ragioni per cui ha ritenuto di confermare il riconoscimento della penale responsabilità dell'imputato.

Ne consegue che le censure dedotte dal ricorrente con i primi tre motivi, avuto riguardo alla coerenza ed alla logicità delle motivazioni rese dal giudice di merito, appaiono del tutto infondate, non ravvisandosi motivi per il loro accoglimento.

5. Del pari infondato, poi, è anche il quarto motivo di ricorso, in quanto la, sia pur stringata, motivazione resa dalla Corte di appello ben rappresenta e giustifica, in punto di diritto, le ragioni per cui il giudice di seconde cure ha ritenuto di negare il riconoscimento del beneficio ex art. 62-bis cod. pen. all'imputato, valorizzando il profilo dell'entità della colpa ravvisabile nel suo comportamento, in quanto autore di una grave negligenza «nella organizzazione della procedura di lavoro, addirittura in specifica violazione delle istruzioni previste dal manuale d'uso della pinza».
Trattasi di motivazione priva di vizi logici, coerente con le emergenze processuali, che non risulta incisa dalle doglianze difensive, limitatesi a riproporre quelle già avanzate con l'atto di appello e ad invocare una rivalutazione di elementi estranei ai limiti della cognizione del giudice di legittimità, peraltro indicando, in maniera generica, elementi a sé favorevoli di certo inidonei a far ritenere il mancato riconoscimento delle attenuanti ex art. 62-bis cod. pen. quale conseguenza di un arbitrio o di un ragionamento illogico.
Il diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche è, pertanto, giustificato da motivazione congrua ed esente da manifesta illogicità, in quanto tale insindacabile in sede di legittimità (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi e altri, Rv. 242419-01).
D'altro canto - in particolare dopo la modifica dell'art. 62-bis cod. pen. disposta dal d.l. 23 maggio 2008, n. 2002, convertito con modifiche dalla I. 24 luglio 2008, n. 125 - è assolutamente sufficiente che il giudice si limiti a dar conto, come implicitamente avvenuto nella situazione in esame, di avere valutato e applicato i criteri ex art. 133 cod. pen. In tema di attenuanti generiche, infatti, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di tale adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da imporre un obbligo per il giudice, ove ritenga di escluderla, di doverne giustificare, sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza. Al contrario, secondo una giurisprudenza consolidata di questa Corte, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (così, tra le tante, Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, Rv. 192381-01). In altri termini, l'obbligo di analitica motivazione in materia di circostanze attenuanti generiche qualifica la decisione circa la sussistenza delle condizioni per concederle e non anche la decisione opposta (cfr. Sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace ed altro, Rv. 245241-01).

6. Al rigetto del ricorso segue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna di DS.G. al pagamento delle spese processuali.



P.Q.M.




Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 4 novembre 2021


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